martedì 22 dicembre 2015

Goccia.

Tirai su il cappuccio del giubbotto, maledetto io e la mia mania di uscire senza ombrello, quando l'arrivo della pioggia era così palese. Anche se da un lato mi piaceva prendere la pioggia, mi aiutava a pensare, pensare a tutto e a nulla, della pioggia amavo il catarsi, quel processo di purificazione accompagnato dal picchiettio dolce che ricopriva tutto e riempiva i timpani.
La pioggia noncurante, come il resto del mondo, iniziava a riempire ogni spazio o intercapedine disponibile, generando laghi e ruscelli dove poteva.
Io nel frattempo mettevo i piedi nei laghi, guadavo fiumi, altri laghi venivano superati saltellando, come se fossi terrorizzato dal solo contatto.
Il grigio scuro con le note di blu riempiva tutto creando quella cappa di tristezza per cui è nota la pioggia. A me, al contrario, quel colore riempiva gli occhi, l'umidità mi riempiva la bocca, il profumo di bagnato mi saturava le narici, il rumore mi entrava nel cranio e attutiva ogni pensiero. In quel momento mi prese l'allegria, vecchia compagna di avventure, chissà per quale motivo, so che iniziai a sorridere.
Abbassai il cappuccio e alzai la testa verso il cielo e lasciai che le gocce mi accarezzassero il viso, avevo tutti i sensi impegnati, ma quello che amavo di più era il tatto, il dolce colpire di quelle piccolissime dita sul mio volto, era impagabile.
Continuai a camminare in quel delta di rigagnoli che sfociavano a cascata sulla strada, ero saturo, pieno emotivamente.
Una delle migliori sensazioni possibili, essere completamente coinvolti in qualcosa, mi permetteva di mettere il cervello in pausa, lasciarmi andare alla corrente. Lasciarmi trascinare come le foglioline trasportate dall'acqua ai lati del marciapiede.
Continuavo a sorridere. E sorridevo. E quanto avrei continuato, ma iniziavo a bagnarmi troppo mentre la pioggia diventava un acquazzone. Cercai riparo sotto una pensilina dell'autobus, sotto la luce sporca di un lampione vecchio quanto mio padre. Dal sorridere passai al ridere, ridere di gusto, mi stavo sfogando, ridevo di diaframma, ogni muscolo coinvolto dallo spasmo e ridevo. Mi scompigliai i capelli con la mano sinistra, facendo volare gocce dovunque, anche se qualche temeraria rimase appesa con tenacia. E ridevo.
Almeno finché il leggero picchiettare della pioggia non venne interrotto da un rumore strano. Sciac, da un vicolo di lato, sciac convinto, sciac sciac impertinente, quel rumore di passi di corsa, mi bloccai a osservare l'entrata del vicolo.
Il suono si fece molto più convinto, finché una ragazza non uscì correndo dalla stradina. Si fermò a fare una piroetta sotto il lampione, ignara che la stessi guardando, che ci fosse qualcuno lì intorno. Mentre piroettava intravidi il suo volto, una frazione di secondo, mentre passava dalla luce fioca del lampione al cono d'ombra circostante. Vidi il suo sorriso, così perfetto, e gli occhi chiusi, intenta a pensare a chissà cosa.
Poi finalmente si accorse di me. Si immobilizzò, congelata. L'unica cosa in movimento su di lei erano le gocce d'acqua che impertinenti continuavano a scendere dalla punta dei suoi capelli, per poi fermarsi sull'asfalto. Mi stava fissando mentre la pioggia cadeva, poi capì la situazione, probabilmente vergognandosi si avvicinò alla pensilina.
Le feci spazio. La pioggia riempiva tutto, il suo rumore fortunatamente copriva il silenzio imbarazzante che si era creato. Finché non decisi di romperlo.
Sorridi spesso sotto la pioggia?”.
Quando sono sola sempre”.
E sei spesso sola?”.
Non quanto vorrei”, questo lo disse iniziando a guardarmi. Forse ero stato troppo aggressivo. Dovevo abbassare il livello della conversazione.
Anche io sorrido sotto la pioggia, mi piace” non so perché me la fossi rischiata così, francamente era una sconosciuta, carina, ma pur sempre una sconosciuta. Sembrava che a una parte di me non interessasse il distaccamento da quella situazione.
Prese lei le redini del discorso.
E sai cosa mi piace ancora di più? Soprattutto con la pioggia”.
Fare piroette?”
Non troppo a dir la verità, mi piace tornare a casa, farmi una bella doccia calda, e poi farmi un the, berlo ancora bollente e infilarmi sotto le coperte”.
Condivido alla grande”.
Con una risposta a cazzo del genere, completamente onesta, ma stupida quanto un paio di trampoli per un pinguino, avevo suscitato la sua attenzione.

Lei iniziò a fissarlo, vedeva delle gocce solitarie scendere dalla sua fronte, posarsi sulle sue labbra, e quanto le invidiava, le avrebbe raccolte tutte. Dall'altro lato lui osservava i suoi capelli lunghi, che gocciolavano un po' dovunque, e quelle piccole temerarie scendevano a farle il contorno, segnando linee sul suo collo, curve sul suo petto, e le avrebbe seguite dovunque, viaggiando su quelle strade, perdendosi in quel viaggio. Erano due perfetti sconosciuti, eppure sembrava che si conoscessero da sempre. Che avessero vissuto in luce di quel momento.
Poi lei ruppe il silenzio.
The caldo in compagnia?”
Perchè no?”
Abito qua vicino, basta prendere una delle vie laterali e siamo a casa mia”
Andiamo allora”
Mi prese per mano e mi iniziò a trascinare quasi correndo, attraverso pozzanghere che ormai non erano più laghi, attraverso fiumi che altro non erano che rigagnoli, non ero più terrorizzato dal pestarli, attraversavo tutto, senza rispetto. Stavamo correndo nel vicolo, nella penombra, sotto la pioggia, entrambi sorridendo. Pensavo al the e alla bustina in infusione, quel leggero macchiarsi dell'acqua trasparente, il lento diffondersi dei pigmenti, come le radici di una pianta che crescono, la lenta diffusione del profumo. La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Lei stava pensando al calore della fiamma sul bollitore, calore della tazza in ceramica, il dolore alle mani nel tenerla, il calore della casa, la sensazione di bruciore nello stomaco dell'acqua bollente. La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Si guardarono per mezzo secondo sorridenti e capirono tutte le promesse che erano celate sotto quella tazza di the. Accettarono entrambi a occhi chiusi. Avrebbero bevuto quel the caldo. Firmarono senza riserva tutte le clausole che quell'incontro celava e se ne assunsero le responsabilità. Correvano sorridendo sotto l'acqua che ormai era passata in secondo piano. Ormai avevano passato questo livello di sensibilità. Erano dentro in casa. Seduti a fissarsi di fronte al vapore, con le mani a coppa. Gocciolanti, sorridenti.

Tempo da lupi”, questo pensava l'autista dell'autobus, era un po' scocciato, odiava lavorare con quel tempo, la pioggia fitta allagava sempre le strade, e lui era costretto a sollevare delle onde enormi al suo passaggio, aggiungici poi che la compagnia in quel turno serale era quella che era, solita anziana signora ansiosa di fare chiacchiere, classica cliente insopportabile, messa lì appunto per spiegare il significato del cartello alla sua destra “Non disturbare il conducente”. Ma lei impertinente continuava a parlare della sua vita, come se a lui potesse interessare qualcosa. “Proprio un tempo da lupi” “Eh già, il mondo sta andando a pezzi, anche le piogge non sono più quelle di una volta, basta che piova per un'ora e si allaga qualcosa”. “Piove, governo ladro” pensava il conducente, quella donna era un luogo comune che aveva preso vita. “Grazie a dio è l'ultima mia corsa, non vedo l'ora di finire a casa al calduccio”. Intanto la signora faceva cadere le parole in testa al conducente come fosse pioggia, forse con più frequenza che le gocce che cadevano fuori. “Signora gentilmente può evitare di disturbarmi per un secondo? Non vedo molto con la pioggia fitta. Poi qui è pieno di pozzanghere. Speriamo che il Comune si decida a riempir..”. Proprio in quel momento i due ragazzi uscirono di corsa da un vicolo laterale, il conducente provò anche a frenare e ce l'avrebbe fatta se non fosse stato per l'eccessiva acqua che c'era sull'asfalto.

Luce improvvisa. Schianto, poi più nulla.

Lei era stata scaraventata 4 metri più avanti, probabilmente l'urto le aveva spezzato sul colpo le vertebre cervicali, il viso ancora contorto in un qualcosa che sotto le bruciature da contatto nascondeva ancora la parvenza del sorriso. Neanche aveva fatto in tempo a rendersene conto. Sul colpo, doveva aver percepito solo il calore dei fari a 3000 lumen sul corpo. Poi più nulla.

Lui era stato più sfortunato, era stato colpito dalla forza d'impatto e si era sicuramente fratturato il bacino e un paio delle ultime vertebre, in compenso le costole gli avevano perforato il petto. Si stava dissanguando. Lentamente il sangue si mescolava con l'acqua, e correva intorno, si diffondeva come il the nell'acqua calda, lentamente la vita lo stava lasciando. Steso con il viso verso il cielo ormai nero, le gocce scendevano sul suo viso. Nonostante tutto, noncurante della situazione, il suo labbro si incurvò a formare un sorriso, mentre dalle dita cadevano gocce di sangue che creavano radici che lentamente si dirigevano ai lati della strada. Una goccia cadde sul suo labbro e gli entrò in gola. In quel corpo martoriato che stava dipingendo la strada. Quando la goccia d'acqua gli scese per la gola pensò che forse era meglio il the caldo.
Sicuramente era meglio.
La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.


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