“10
minuti e sono fuori”, l'unico pensiero fisso mentre l'insegnante
blaterava qualcosa a riguardo della politica interna inglese nella 2
guerra mondiale, completamente in un altro pianeta, pensiero
stabilizzato nella pausa, un desiderio inarrivabile perché sapevo
che quei 10 minuti sarebbero stati eterni, mi sarebbe spuntata la
barba nel frattempo, già lo sapevo, forse per quello iniziai a
strofinarmi il mento con forza. Intanto nella penultima fila a destra
iniziavo a sentire rumore di carta plastificata, qualcuno aveva
ceduto allo stomaco immaginavo, ma stava facendo troppo rumore e
l'insegnante per quanto fosse stato preso dal suo delirio di sapere
l'avrebbe beccato. Era lei, intenta a scartare un pacco di caramelle
gommose, stupidotta pensavo, anche perché il profumo di quelle cose
era troppo forte, quel miscuglio di finta frutta e zucchero si
sarebbe sentito a km di distanza.
Non
la volevo calcolare più di tanto, mi aveva spezzato il cuore dopo
che stupidamente ci avevo creduto, non volevo darle il beneficio di
prendersi un mio sguardo, anche se ultimamente percepivo che c'era
qualcosa che non stava andando bene, c'era qualcosa nel suo modo di
fare che mi lasciava perplesso, come se fosse successo qualcosa nel
suo equilibrio perfetto. Una parte di me ne era ancora interessato,
l'altra stava sbattendo i piatti insieme alla scimmietta, tanto per
far capire quanto gliene fregasse.
Naturalmente
venne beccata subito dal professore che probabilmente aveva già una
brutta giornata di suo, lo vidi caricarsi, prendere la forza dalla
punta delle scarpe, vidi il brivido risalire sulla schiena per poi
sfociare sulle sue labbra.
Iniziò
il delirio, ramanzina, parole su parole, e dall'altro lato lei, in
religioso silenzio a prenderle tutte, con quell'aria strafottente che
me l'aveva resa stupenda, almeno fino a poco tempo prima. Almeno
finché quasi a rallentatore il professore lanciò una bomba
“Incapace di prestare attenzione a nulla, incapace di stare attenta
a qualcosa, nel tuo mondo perfetto, c'è spazio per il resto
dell'umanità?”. Oh se era riuscito a fare una crepa nello scudo di
strafottenza che lei aveva eretto, oh sì, la vidi riemergere
dall'indifferenza, vidi lo sguardo dell'animale ferito, quasi
sorrisi, mi aspettavo una reazione abbastanza esplosiva, come un
animale messo all'angolo, mi aspettavo mordesse, invece riuscì a
sorprendermi, ancora una volta. Vidi il suo labbro inferiore
tremolare, gli occhi lucidi, e, contro ogni previsione, scoppiò a
piangere.
Naturalmente
tutti iniziarono a fissarla come se venisse da un altro pianeta,
qualcuno sorridendo, qualcuno intristendosi, tutto sommato l'intero
gruppo prese le distanze da quella manifestazione emotiva così
cruda, probabilmente non ne capivano il motivo e la emarginarono con
gli sguardi.
Capendo
di non riuscire a reggere la situazione si alzò di scatto e uscì
dalla classe, quasi di corsa, per fare come fanno i bambini quando
sentono dolore, nascondersi dagli sguardi, perché capiscono che la
manifestazione del dolore è sintomo di debolezza, quando il più
delle volte è liberazione, e se hai la sfortuna di incontrare una
persona empatica nel frattempo, forse ne esci meglio di come sei
entrata.
Mi
ci vollero 2 secondi per pensarci poi decisi.
Ero
uscita dalla classe di corsa, le mani sotto le ascelle e avevo deciso
di rifugiarmi nell'unico posto in cui potevo essere tranquilla, il
bagno. Non riuscivo a fermare le lacrime, ero presa dalla tristezza,
ero rimasta anche sorpresa che un paio di parole fossero riuscite a
farmi quell'effetto, cosa poteva saperne lui di quello che avevo
sentito, di quello che avevo capito e interpretato da quelle frasi
buttate lì? Avevo bisogno di qualcuno, avevo bisogno di nessuno.
Mi
chiusi dentro il bagno e restai lì seduta sul cesso a piangere,
senza alcun apparente motivo, neanche io capivo quello che stavo
provando, fatto sta che non riuscivo a fermare quelle lacrime e la
cosa aggiungeva rabbia alla tristezza.
Senti
bussare, non era stato un suono deciso, come a dire di sbrigarsi, era
un suono gentile, quasi a chiedere “Sei lì?”, aprii la porta e
lo vidi, era lì, era venuto per me, aveva capito, non disse nulla,
entrò e chiuse la porta, restò lì a guardarmi con quegli occhi
profondi che più di una volta mi avevano attraversato facendomi male
e curandomi, lui sapeva che non avrebbe dovuto dire niente, era lì
solo per mettersi tra la tristezza e me, a farmi da scudo anche se
non lo meritavo. Gli avevo spezzato il cuore e lui era comunque lì,
non mi avrebbe parlato comunque, non lo aveva fatto per un paio di
mesi e non l'avrebbe fatto neanche ora, soprattutto ora. Perché
capiva, aveva sempre capito.
Lo
guardai negli occhi, come erano profondi, un pozzo dove cadere in
eterno, restare lì in caduta libera, alla fine sarebbe rimasto lui a
reggermi, sarebbe rimasto. Ancora non disse nulla, mi fissava e
basta. Io ricambiavo, ma non con la stessa intensità, non ci sarei
mai riuscita.
Avevo
bisogno di prenderlo e farlo mio, metterlo dentro di me e fargli
percepire tutto, avrebbe capito tutto, capito il perché delle mie
azioni, il perché dei miei pianti, il grande perché della mia vita.
Cercavo il contatto, così mi alzai e lo abbracciai, senza dire
nulla, e lui restò lì immobile, non mi strinse, come un manichino,
rimase lì, immobile, inamovibile.
Forse
avevo esagerato, forse. Ma restai così stretta, cercando di farlo
entrare nel petto, stringendolo. Mi separai, e l'effetto fu come
quello dello strappo di un cerotto da una ferita fresca, mi sentii
scoperta. Mi risedetti e abbassai lo sguardo risollevata e triste. Fu
proprio in quel momento che sentii la sua mano, era sotto il mio
mento e stava spingendo con delicatezza verso l'alto, verso i suoi
occhi, quando incrociai il suo sguardo sollevai la mano verso la sua,
posata sulla mia guancia destra, e nell'esatto momento in cui lo
toccai percepii una scossa di freddo. Dalla punta dei polpastrelli,
giù per il braccio, tra le costole, dritta nel cuore, per dividerlo,
per farmelo a pezzi.
Proprio
quando lo toccai ritornai alla realtà, ero seduta sul cesso fissando
la porta, non c'era nessuno, non c'era mai stato nessuno, ero sola e
ripresi a piangere, stavolta per un buon motivo.
Suonò
la campanella e mi girai verso la penultima fila, verso il banco
vuoto, una parte di me era da lei a sollevarla dai suoi problemi,
l'altra era lì seduta pronta a prendere le cuffie. Le raccolsi, me
le misi insieme alla cartella e camminando uscii da scuola.
Appena
uscito mi girai e rivolsi lo sguardo verso la finestra del bagno
femminile, sapevo che era lì, mi girai e andai avanti.
Forse
in un altro universo sarei stato lì a reggerla, ad alleviare la sua
tristezza, ma in questo avevo le cuffie e stavo camminando.
Fischiettavo.
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