giovedì 10 dicembre 2015

Crepe

10 minuti e sono fuori”, l'unico pensiero fisso mentre l'insegnante blaterava qualcosa a riguardo della politica interna inglese nella 2 guerra mondiale, completamente in un altro pianeta, pensiero stabilizzato nella pausa, un desiderio inarrivabile perché sapevo che quei 10 minuti sarebbero stati eterni, mi sarebbe spuntata la barba nel frattempo, già lo sapevo, forse per quello iniziai a strofinarmi il mento con forza. Intanto nella penultima fila a destra iniziavo a sentire rumore di carta plastificata, qualcuno aveva ceduto allo stomaco immaginavo, ma stava facendo troppo rumore e l'insegnante per quanto fosse stato preso dal suo delirio di sapere l'avrebbe beccato. Era lei, intenta a scartare un pacco di caramelle gommose, stupidotta pensavo, anche perché il profumo di quelle cose era troppo forte, quel miscuglio di finta frutta e zucchero si sarebbe sentito a km di distanza.
Non la volevo calcolare più di tanto, mi aveva spezzato il cuore dopo che stupidamente ci avevo creduto, non volevo darle il beneficio di prendersi un mio sguardo, anche se ultimamente percepivo che c'era qualcosa che non stava andando bene, c'era qualcosa nel suo modo di fare che mi lasciava perplesso, come se fosse successo qualcosa nel suo equilibrio perfetto. Una parte di me ne era ancora interessato, l'altra stava sbattendo i piatti insieme alla scimmietta, tanto per far capire quanto gliene fregasse.
Naturalmente venne beccata subito dal professore che probabilmente aveva già una brutta giornata di suo, lo vidi caricarsi, prendere la forza dalla punta delle scarpe, vidi il brivido risalire sulla schiena per poi sfociare sulle sue labbra.
Iniziò il delirio, ramanzina, parole su parole, e dall'altro lato lei, in religioso silenzio a prenderle tutte, con quell'aria strafottente che me l'aveva resa stupenda, almeno fino a poco tempo prima. Almeno finché quasi a rallentatore il professore lanciò una bomba “Incapace di prestare attenzione a nulla, incapace di stare attenta a qualcosa, nel tuo mondo perfetto, c'è spazio per il resto dell'umanità?”. Oh se era riuscito a fare una crepa nello scudo di strafottenza che lei aveva eretto, oh sì, la vidi riemergere dall'indifferenza, vidi lo sguardo dell'animale ferito, quasi sorrisi, mi aspettavo una reazione abbastanza esplosiva, come un animale messo all'angolo, mi aspettavo mordesse, invece riuscì a sorprendermi, ancora una volta. Vidi il suo labbro inferiore tremolare, gli occhi lucidi, e, contro ogni previsione, scoppiò a piangere.
Naturalmente tutti iniziarono a fissarla come se venisse da un altro pianeta, qualcuno sorridendo, qualcuno intristendosi, tutto sommato l'intero gruppo prese le distanze da quella manifestazione emotiva così cruda, probabilmente non ne capivano il motivo e la emarginarono con gli sguardi.
Capendo di non riuscire a reggere la situazione si alzò di scatto e uscì dalla classe, quasi di corsa, per fare come fanno i bambini quando sentono dolore, nascondersi dagli sguardi, perché capiscono che la manifestazione del dolore è sintomo di debolezza, quando il più delle volte è liberazione, e se hai la sfortuna di incontrare una persona empatica nel frattempo, forse ne esci meglio di come sei entrata.
Mi ci vollero 2 secondi per pensarci poi decisi.

Ero uscita dalla classe di corsa, le mani sotto le ascelle e avevo deciso di rifugiarmi nell'unico posto in cui potevo essere tranquilla, il bagno. Non riuscivo a fermare le lacrime, ero presa dalla tristezza, ero rimasta anche sorpresa che un paio di parole fossero riuscite a farmi quell'effetto, cosa poteva saperne lui di quello che avevo sentito, di quello che avevo capito e interpretato da quelle frasi buttate lì? Avevo bisogno di qualcuno, avevo bisogno di nessuno.
Mi chiusi dentro il bagno e restai lì seduta sul cesso a piangere, senza alcun apparente motivo, neanche io capivo quello che stavo provando, fatto sta che non riuscivo a fermare quelle lacrime e la cosa aggiungeva rabbia alla tristezza.
Senti bussare, non era stato un suono deciso, come a dire di sbrigarsi, era un suono gentile, quasi a chiedere “Sei lì?”, aprii la porta e lo vidi, era lì, era venuto per me, aveva capito, non disse nulla, entrò e chiuse la porta, restò lì a guardarmi con quegli occhi profondi che più di una volta mi avevano attraversato facendomi male e curandomi, lui sapeva che non avrebbe dovuto dire niente, era lì solo per mettersi tra la tristezza e me, a farmi da scudo anche se non lo meritavo. Gli avevo spezzato il cuore e lui era comunque lì, non mi avrebbe parlato comunque, non lo aveva fatto per un paio di mesi e non l'avrebbe fatto neanche ora, soprattutto ora. Perché capiva, aveva sempre capito.
Lo guardai negli occhi, come erano profondi, un pozzo dove cadere in eterno, restare lì in caduta libera, alla fine sarebbe rimasto lui a reggermi, sarebbe rimasto. Ancora non disse nulla, mi fissava e basta. Io ricambiavo, ma non con la stessa intensità, non ci sarei mai riuscita.
Avevo bisogno di prenderlo e farlo mio, metterlo dentro di me e fargli percepire tutto, avrebbe capito tutto, capito il perché delle mie azioni, il perché dei miei pianti, il grande perché della mia vita. Cercavo il contatto, così mi alzai e lo abbracciai, senza dire nulla, e lui restò lì immobile, non mi strinse, come un manichino, rimase lì, immobile, inamovibile.
Forse avevo esagerato, forse. Ma restai così stretta, cercando di farlo entrare nel petto, stringendolo. Mi separai, e l'effetto fu come quello dello strappo di un cerotto da una ferita fresca, mi sentii scoperta. Mi risedetti e abbassai lo sguardo risollevata e triste. Fu proprio in quel momento che sentii la sua mano, era sotto il mio mento e stava spingendo con delicatezza verso l'alto, verso i suoi occhi, quando incrociai il suo sguardo sollevai la mano verso la sua, posata sulla mia guancia destra, e nell'esatto momento in cui lo toccai percepii una scossa di freddo. Dalla punta dei polpastrelli, giù per il braccio, tra le costole, dritta nel cuore, per dividerlo, per farmelo a pezzi.
Proprio quando lo toccai ritornai alla realtà, ero seduta sul cesso fissando la porta, non c'era nessuno, non c'era mai stato nessuno, ero sola e ripresi a piangere, stavolta per un buon motivo.

Suonò la campanella e mi girai verso la penultima fila, verso il banco vuoto, una parte di me era da lei a sollevarla dai suoi problemi, l'altra era lì seduta pronta a prendere le cuffie. Le raccolsi, me le misi insieme alla cartella e camminando uscii da scuola.
Appena uscito mi girai e rivolsi lo sguardo verso la finestra del bagno femminile, sapevo che era lì, mi girai e andai avanti.
Forse in un altro universo sarei stato lì a reggerla, ad alleviare la sua tristezza, ma in questo avevo le cuffie e stavo camminando.


Fischiettavo.

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