martedì 22 dicembre 2015

Goccia.

Tirai su il cappuccio del giubbotto, maledetto io e la mia mania di uscire senza ombrello, quando l'arrivo della pioggia era così palese. Anche se da un lato mi piaceva prendere la pioggia, mi aiutava a pensare, pensare a tutto e a nulla, della pioggia amavo il catarsi, quel processo di purificazione accompagnato dal picchiettio dolce che ricopriva tutto e riempiva i timpani.
La pioggia noncurante, come il resto del mondo, iniziava a riempire ogni spazio o intercapedine disponibile, generando laghi e ruscelli dove poteva.
Io nel frattempo mettevo i piedi nei laghi, guadavo fiumi, altri laghi venivano superati saltellando, come se fossi terrorizzato dal solo contatto.
Il grigio scuro con le note di blu riempiva tutto creando quella cappa di tristezza per cui è nota la pioggia. A me, al contrario, quel colore riempiva gli occhi, l'umidità mi riempiva la bocca, il profumo di bagnato mi saturava le narici, il rumore mi entrava nel cranio e attutiva ogni pensiero. In quel momento mi prese l'allegria, vecchia compagna di avventure, chissà per quale motivo, so che iniziai a sorridere.
Abbassai il cappuccio e alzai la testa verso il cielo e lasciai che le gocce mi accarezzassero il viso, avevo tutti i sensi impegnati, ma quello che amavo di più era il tatto, il dolce colpire di quelle piccolissime dita sul mio volto, era impagabile.
Continuai a camminare in quel delta di rigagnoli che sfociavano a cascata sulla strada, ero saturo, pieno emotivamente.
Una delle migliori sensazioni possibili, essere completamente coinvolti in qualcosa, mi permetteva di mettere il cervello in pausa, lasciarmi andare alla corrente. Lasciarmi trascinare come le foglioline trasportate dall'acqua ai lati del marciapiede.
Continuavo a sorridere. E sorridevo. E quanto avrei continuato, ma iniziavo a bagnarmi troppo mentre la pioggia diventava un acquazzone. Cercai riparo sotto una pensilina dell'autobus, sotto la luce sporca di un lampione vecchio quanto mio padre. Dal sorridere passai al ridere, ridere di gusto, mi stavo sfogando, ridevo di diaframma, ogni muscolo coinvolto dallo spasmo e ridevo. Mi scompigliai i capelli con la mano sinistra, facendo volare gocce dovunque, anche se qualche temeraria rimase appesa con tenacia. E ridevo.
Almeno finché il leggero picchiettare della pioggia non venne interrotto da un rumore strano. Sciac, da un vicolo di lato, sciac convinto, sciac sciac impertinente, quel rumore di passi di corsa, mi bloccai a osservare l'entrata del vicolo.
Il suono si fece molto più convinto, finché una ragazza non uscì correndo dalla stradina. Si fermò a fare una piroetta sotto il lampione, ignara che la stessi guardando, che ci fosse qualcuno lì intorno. Mentre piroettava intravidi il suo volto, una frazione di secondo, mentre passava dalla luce fioca del lampione al cono d'ombra circostante. Vidi il suo sorriso, così perfetto, e gli occhi chiusi, intenta a pensare a chissà cosa.
Poi finalmente si accorse di me. Si immobilizzò, congelata. L'unica cosa in movimento su di lei erano le gocce d'acqua che impertinenti continuavano a scendere dalla punta dei suoi capelli, per poi fermarsi sull'asfalto. Mi stava fissando mentre la pioggia cadeva, poi capì la situazione, probabilmente vergognandosi si avvicinò alla pensilina.
Le feci spazio. La pioggia riempiva tutto, il suo rumore fortunatamente copriva il silenzio imbarazzante che si era creato. Finché non decisi di romperlo.
Sorridi spesso sotto la pioggia?”.
Quando sono sola sempre”.
E sei spesso sola?”.
Non quanto vorrei”, questo lo disse iniziando a guardarmi. Forse ero stato troppo aggressivo. Dovevo abbassare il livello della conversazione.
Anche io sorrido sotto la pioggia, mi piace” non so perché me la fossi rischiata così, francamente era una sconosciuta, carina, ma pur sempre una sconosciuta. Sembrava che a una parte di me non interessasse il distaccamento da quella situazione.
Prese lei le redini del discorso.
E sai cosa mi piace ancora di più? Soprattutto con la pioggia”.
Fare piroette?”
Non troppo a dir la verità, mi piace tornare a casa, farmi una bella doccia calda, e poi farmi un the, berlo ancora bollente e infilarmi sotto le coperte”.
Condivido alla grande”.
Con una risposta a cazzo del genere, completamente onesta, ma stupida quanto un paio di trampoli per un pinguino, avevo suscitato la sua attenzione.

Lei iniziò a fissarlo, vedeva delle gocce solitarie scendere dalla sua fronte, posarsi sulle sue labbra, e quanto le invidiava, le avrebbe raccolte tutte. Dall'altro lato lui osservava i suoi capelli lunghi, che gocciolavano un po' dovunque, e quelle piccole temerarie scendevano a farle il contorno, segnando linee sul suo collo, curve sul suo petto, e le avrebbe seguite dovunque, viaggiando su quelle strade, perdendosi in quel viaggio. Erano due perfetti sconosciuti, eppure sembrava che si conoscessero da sempre. Che avessero vissuto in luce di quel momento.
Poi lei ruppe il silenzio.
The caldo in compagnia?”
Perchè no?”
Abito qua vicino, basta prendere una delle vie laterali e siamo a casa mia”
Andiamo allora”
Mi prese per mano e mi iniziò a trascinare quasi correndo, attraverso pozzanghere che ormai non erano più laghi, attraverso fiumi che altro non erano che rigagnoli, non ero più terrorizzato dal pestarli, attraversavo tutto, senza rispetto. Stavamo correndo nel vicolo, nella penombra, sotto la pioggia, entrambi sorridendo. Pensavo al the e alla bustina in infusione, quel leggero macchiarsi dell'acqua trasparente, il lento diffondersi dei pigmenti, come le radici di una pianta che crescono, la lenta diffusione del profumo. La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Lei stava pensando al calore della fiamma sul bollitore, calore della tazza in ceramica, il dolore alle mani nel tenerla, il calore della casa, la sensazione di bruciore nello stomaco dell'acqua bollente. La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Si guardarono per mezzo secondo sorridenti e capirono tutte le promesse che erano celate sotto quella tazza di the. Accettarono entrambi a occhi chiusi. Avrebbero bevuto quel the caldo. Firmarono senza riserva tutte le clausole che quell'incontro celava e se ne assunsero le responsabilità. Correvano sorridendo sotto l'acqua che ormai era passata in secondo piano. Ormai avevano passato questo livello di sensibilità. Erano dentro in casa. Seduti a fissarsi di fronte al vapore, con le mani a coppa. Gocciolanti, sorridenti.

Tempo da lupi”, questo pensava l'autista dell'autobus, era un po' scocciato, odiava lavorare con quel tempo, la pioggia fitta allagava sempre le strade, e lui era costretto a sollevare delle onde enormi al suo passaggio, aggiungici poi che la compagnia in quel turno serale era quella che era, solita anziana signora ansiosa di fare chiacchiere, classica cliente insopportabile, messa lì appunto per spiegare il significato del cartello alla sua destra “Non disturbare il conducente”. Ma lei impertinente continuava a parlare della sua vita, come se a lui potesse interessare qualcosa. “Proprio un tempo da lupi” “Eh già, il mondo sta andando a pezzi, anche le piogge non sono più quelle di una volta, basta che piova per un'ora e si allaga qualcosa”. “Piove, governo ladro” pensava il conducente, quella donna era un luogo comune che aveva preso vita. “Grazie a dio è l'ultima mia corsa, non vedo l'ora di finire a casa al calduccio”. Intanto la signora faceva cadere le parole in testa al conducente come fosse pioggia, forse con più frequenza che le gocce che cadevano fuori. “Signora gentilmente può evitare di disturbarmi per un secondo? Non vedo molto con la pioggia fitta. Poi qui è pieno di pozzanghere. Speriamo che il Comune si decida a riempir..”. Proprio in quel momento i due ragazzi uscirono di corsa da un vicolo laterale, il conducente provò anche a frenare e ce l'avrebbe fatta se non fosse stato per l'eccessiva acqua che c'era sull'asfalto.

Luce improvvisa. Schianto, poi più nulla.

Lei era stata scaraventata 4 metri più avanti, probabilmente l'urto le aveva spezzato sul colpo le vertebre cervicali, il viso ancora contorto in un qualcosa che sotto le bruciature da contatto nascondeva ancora la parvenza del sorriso. Neanche aveva fatto in tempo a rendersene conto. Sul colpo, doveva aver percepito solo il calore dei fari a 3000 lumen sul corpo. Poi più nulla.

Lui era stato più sfortunato, era stato colpito dalla forza d'impatto e si era sicuramente fratturato il bacino e un paio delle ultime vertebre, in compenso le costole gli avevano perforato il petto. Si stava dissanguando. Lentamente il sangue si mescolava con l'acqua, e correva intorno, si diffondeva come il the nell'acqua calda, lentamente la vita lo stava lasciando. Steso con il viso verso il cielo ormai nero, le gocce scendevano sul suo viso. Nonostante tutto, noncurante della situazione, il suo labbro si incurvò a formare un sorriso, mentre dalle dita cadevano gocce di sangue che creavano radici che lentamente si dirigevano ai lati della strada. Una goccia cadde sul suo labbro e gli entrò in gola. In quel corpo martoriato che stava dipingendo la strada. Quando la goccia d'acqua gli scese per la gola pensò che forse era meglio il the caldo.
Sicuramente era meglio.
La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.


giovedì 10 dicembre 2015

Crepe

10 minuti e sono fuori”, l'unico pensiero fisso mentre l'insegnante blaterava qualcosa a riguardo della politica interna inglese nella 2 guerra mondiale, completamente in un altro pianeta, pensiero stabilizzato nella pausa, un desiderio inarrivabile perché sapevo che quei 10 minuti sarebbero stati eterni, mi sarebbe spuntata la barba nel frattempo, già lo sapevo, forse per quello iniziai a strofinarmi il mento con forza. Intanto nella penultima fila a destra iniziavo a sentire rumore di carta plastificata, qualcuno aveva ceduto allo stomaco immaginavo, ma stava facendo troppo rumore e l'insegnante per quanto fosse stato preso dal suo delirio di sapere l'avrebbe beccato. Era lei, intenta a scartare un pacco di caramelle gommose, stupidotta pensavo, anche perché il profumo di quelle cose era troppo forte, quel miscuglio di finta frutta e zucchero si sarebbe sentito a km di distanza.
Non la volevo calcolare più di tanto, mi aveva spezzato il cuore dopo che stupidamente ci avevo creduto, non volevo darle il beneficio di prendersi un mio sguardo, anche se ultimamente percepivo che c'era qualcosa che non stava andando bene, c'era qualcosa nel suo modo di fare che mi lasciava perplesso, come se fosse successo qualcosa nel suo equilibrio perfetto. Una parte di me ne era ancora interessato, l'altra stava sbattendo i piatti insieme alla scimmietta, tanto per far capire quanto gliene fregasse.
Naturalmente venne beccata subito dal professore che probabilmente aveva già una brutta giornata di suo, lo vidi caricarsi, prendere la forza dalla punta delle scarpe, vidi il brivido risalire sulla schiena per poi sfociare sulle sue labbra.
Iniziò il delirio, ramanzina, parole su parole, e dall'altro lato lei, in religioso silenzio a prenderle tutte, con quell'aria strafottente che me l'aveva resa stupenda, almeno fino a poco tempo prima. Almeno finché quasi a rallentatore il professore lanciò una bomba “Incapace di prestare attenzione a nulla, incapace di stare attenta a qualcosa, nel tuo mondo perfetto, c'è spazio per il resto dell'umanità?”. Oh se era riuscito a fare una crepa nello scudo di strafottenza che lei aveva eretto, oh sì, la vidi riemergere dall'indifferenza, vidi lo sguardo dell'animale ferito, quasi sorrisi, mi aspettavo una reazione abbastanza esplosiva, come un animale messo all'angolo, mi aspettavo mordesse, invece riuscì a sorprendermi, ancora una volta. Vidi il suo labbro inferiore tremolare, gli occhi lucidi, e, contro ogni previsione, scoppiò a piangere.
Naturalmente tutti iniziarono a fissarla come se venisse da un altro pianeta, qualcuno sorridendo, qualcuno intristendosi, tutto sommato l'intero gruppo prese le distanze da quella manifestazione emotiva così cruda, probabilmente non ne capivano il motivo e la emarginarono con gli sguardi.
Capendo di non riuscire a reggere la situazione si alzò di scatto e uscì dalla classe, quasi di corsa, per fare come fanno i bambini quando sentono dolore, nascondersi dagli sguardi, perché capiscono che la manifestazione del dolore è sintomo di debolezza, quando il più delle volte è liberazione, e se hai la sfortuna di incontrare una persona empatica nel frattempo, forse ne esci meglio di come sei entrata.
Mi ci vollero 2 secondi per pensarci poi decisi.

Ero uscita dalla classe di corsa, le mani sotto le ascelle e avevo deciso di rifugiarmi nell'unico posto in cui potevo essere tranquilla, il bagno. Non riuscivo a fermare le lacrime, ero presa dalla tristezza, ero rimasta anche sorpresa che un paio di parole fossero riuscite a farmi quell'effetto, cosa poteva saperne lui di quello che avevo sentito, di quello che avevo capito e interpretato da quelle frasi buttate lì? Avevo bisogno di qualcuno, avevo bisogno di nessuno.
Mi chiusi dentro il bagno e restai lì seduta sul cesso a piangere, senza alcun apparente motivo, neanche io capivo quello che stavo provando, fatto sta che non riuscivo a fermare quelle lacrime e la cosa aggiungeva rabbia alla tristezza.
Senti bussare, non era stato un suono deciso, come a dire di sbrigarsi, era un suono gentile, quasi a chiedere “Sei lì?”, aprii la porta e lo vidi, era lì, era venuto per me, aveva capito, non disse nulla, entrò e chiuse la porta, restò lì a guardarmi con quegli occhi profondi che più di una volta mi avevano attraversato facendomi male e curandomi, lui sapeva che non avrebbe dovuto dire niente, era lì solo per mettersi tra la tristezza e me, a farmi da scudo anche se non lo meritavo. Gli avevo spezzato il cuore e lui era comunque lì, non mi avrebbe parlato comunque, non lo aveva fatto per un paio di mesi e non l'avrebbe fatto neanche ora, soprattutto ora. Perché capiva, aveva sempre capito.
Lo guardai negli occhi, come erano profondi, un pozzo dove cadere in eterno, restare lì in caduta libera, alla fine sarebbe rimasto lui a reggermi, sarebbe rimasto. Ancora non disse nulla, mi fissava e basta. Io ricambiavo, ma non con la stessa intensità, non ci sarei mai riuscita.
Avevo bisogno di prenderlo e farlo mio, metterlo dentro di me e fargli percepire tutto, avrebbe capito tutto, capito il perché delle mie azioni, il perché dei miei pianti, il grande perché della mia vita. Cercavo il contatto, così mi alzai e lo abbracciai, senza dire nulla, e lui restò lì immobile, non mi strinse, come un manichino, rimase lì, immobile, inamovibile.
Forse avevo esagerato, forse. Ma restai così stretta, cercando di farlo entrare nel petto, stringendolo. Mi separai, e l'effetto fu come quello dello strappo di un cerotto da una ferita fresca, mi sentii scoperta. Mi risedetti e abbassai lo sguardo risollevata e triste. Fu proprio in quel momento che sentii la sua mano, era sotto il mio mento e stava spingendo con delicatezza verso l'alto, verso i suoi occhi, quando incrociai il suo sguardo sollevai la mano verso la sua, posata sulla mia guancia destra, e nell'esatto momento in cui lo toccai percepii una scossa di freddo. Dalla punta dei polpastrelli, giù per il braccio, tra le costole, dritta nel cuore, per dividerlo, per farmelo a pezzi.
Proprio quando lo toccai ritornai alla realtà, ero seduta sul cesso fissando la porta, non c'era nessuno, non c'era mai stato nessuno, ero sola e ripresi a piangere, stavolta per un buon motivo.

Suonò la campanella e mi girai verso la penultima fila, verso il banco vuoto, una parte di me era da lei a sollevarla dai suoi problemi, l'altra era lì seduta pronta a prendere le cuffie. Le raccolsi, me le misi insieme alla cartella e camminando uscii da scuola.
Appena uscito mi girai e rivolsi lo sguardo verso la finestra del bagno femminile, sapevo che era lì, mi girai e andai avanti.
Forse in un altro universo sarei stato lì a reggerla, ad alleviare la sua tristezza, ma in questo avevo le cuffie e stavo camminando.


Fischiettavo.

domenica 6 dicembre 2015

Punti di Vista

Era una gran bella giornata, sentiva il sole forte sulla pelle, scaldava veramente tutto, poteva ringraziare di avere gli occhiali scuri e subito si mise a ridere della sua battuta. Aveva deciso di andare a fare una passeggiata, sapeva che sarebbe finito al solito bar, ma amava quel posto, soprattutto per il rumore, tra tazzine e bicchieri aveva la giusta colonna sonora per lasciarsi andare ai migliori pensieri. Pensava a quanto sfortunato poteva essere una persona sorda, incapace di percepire quella che poteva essere la voce di una ragazza o il canticchiare degli uccelli o anche lo stupido rumore del vento. Ringraziò la sua fortuna.
Intanto era arrivato al bar, andò a sedersi al solito posto e Michele che lo aveva visto arrivare andò subito a prendere l'ordinazione.
Ehi Giorgio, il solito?” “Ovviamente”.

Non sapeva come poteva fare per smettere di piangere, Claudia non ne poteva più di quel modo di fare del mondo, dei ragazzi in generale, non ne poteva più del sole che le stava solo dando fastidio agli occhi arrossati, in più aveva dormito uno schifo quella notte, decise che aveva bisogno di parlarne e non con qualche amica superficiale o qualche consigliere dell'ultimo minuto, aveva solo bisogno di parlare e che qualcuno la ascoltasse, così decise di fare la cosa più semplice del mondo, entrò nel primo bar che trovò, convinta di potersi sfogare, almeno con il barista che nella sua professione ascoltava e dava ragione a eroi e a malvagi almeno finché consumavano.
Mise la mano sulla maniglia, stranamente fredda, ed entrò. “Buongiorno”. Claudia quasi grugnì un “ 'Giorno”, Michele subito capì la situazione e prese l'ordinazione, poi iniziò a servire gli altri clienti che erano appena entrati, e li accolse con un sorriso smagliante.
Claudia pensò al succo all'ananas, non si ricordò di dove aveva letto che l'ananas bruciava i grassi, e anche se fosse stato vero non gli interessava molto. Al banco, con il succo in mano, iniziò a guardarsi intorno, c'erano un paio di coppiette intente a parlottare del più e del meno, Claudia non sapeva se odiarli o esserne invidiosa, poi la sua vista si posò sul tavolino all'angolo, lì c'era un ragazzo con addosso delle cuffiette e gli occhiali da sole, con lo sguardo perso nel vuoto.
Forse più per curiosità morbosa che vero e proprio interesse, Claudia prese il succo e si diresse verso il tavolino d'angolo. “Posso sedermi?”, il ragazzo fece finta di nulla oppure non l'aveva sentita, così gli toccò la spalla, “Scusa posso sedermi?”. Giorgio riemerse dal flusso di pensieri indotti dalla musica, si levò le cuffiette e le rispose “Certo, tranquilla”. “Immagino tu voglia parlare” disse Giorgio, Claudia si sentì presa in contropiede, beccata subito, “Hai ragione”, Giorgio sorrise e le rispose “Non c'è problema, farebbe piacere anche a me fare conversazione, di cosa vuoi parlare?”.
Del mondo, di quanto le persone siano materiali, di quanto non riesca a sentirmi a mio agio in questo sistema, so che è molto complicato come argomento, ma non c'è niente di meglio di parlarne con un, perdonami, sconosciuto”.
Non ti devi scusare, ma devi darmi più dati, è troppo generico così il discorso, cosa potrei risponderti? L'unica maniera che abbiamo di interfacciarci con la realtà e attraverso le parole e non è che sia sempre facile esprimere i propri pensieri o sensazioni”
Appunto per questo faccio fatica a spiegarti, in parole molto semplici, sono stanca di essere valutata per quello che mostro più che per quello che avrei da mostrare” “Da un lato è anche colpa tua, non fraintendermi, ma sei la prima responsabile delle valutazioni che gli altri danno di te, forse dai troppo valore alla tua apparenza più che cercare di dimostrare la tua sostanza” “Non faccio nulla, ma non riesco mai ad avere un discorso, per esempio con i ragazzi, che sia un filino profondo, tutti a chiedermi o il numero di telefono o a cercare di finirmi nei pantaloni e francamente non riesco più a sopportarlo”.
Giorgio sospirò e le rispose “So che non è facile, ma devi cercare di non dare l'impressione che sia quello il tuo modo di fare generico, cioè devi evitare di dare l'impressione di essere materiale, per esempio sono 5 minuti che parliamo e non ti sei ancora presentata, ma allo stesso tempo ho notato che ogni volta che parli gesticoli molto, e ogni volta che gesticoli i tuoi braccialetti tintinnano, perché li hai indossati?” “Mi chiamo Claudia e ho messo questi braccialetti perché mi piacciono!”.
Claudia si sentì messa al muro, il ragazzo era molto più profondo di quello che poteva aspettarsi. “Io Giorgio, anche se non me lo hai chiesto, comunque la tua non è una risposta, il motivo vero è che li hai indossati perché ti fanno sentire più carina e più carina, per te, vuol dire più sicura di te stessa” “Forse. Ma questo cosa centra con il resto del mondo?” “Che il mondo inavvertitamente ti giudica materiale, con così poco da offrire sul piano della profondità morale che decide di avvicinarti solo persone materiali, perché è quello che stai chiedendo. Chiedi attenzioni grazie al tuo aspetto fisico e non puoi poi sorprenderti”.
Claudia iniziava ad averne abbastanza. “Cosa ne puoi sapere? Probabilmente anche tu con tutti questi discorsi profondi che hai fatto, in realtà saranno 5 minuti che mi guardi le tette, ed è ancora di più che indossi quegli occhiali da sole qui al coperto, sicuramente anche tu sei più materiale di quello che pensi”.
Giorgio sorrise “Finora non ne ho ancora avuto l'occasione, ma devono essere una gran cosa se avrei dovuto farci attenzione! Credo che il motivo principale per cui non ti trovi in questa società sarà il conflitto, che ancora non hai risolto, tra il tuo essere materialista, amare gli sguardi lascivi dei ragazzi e il tuo essere alla ricerca di qualcuno che non ti giudichi per quello che fai vedere. Capisco il tuo modo di sentirti, ma devi cambiare il tuo modo di affrontare la vita. Tutto qui”.
Giorgio detto questo si alzò e si diresse a pagare, si avvicinò a Michele e pagò anche il succo all'ananas di Claudia, poi mentre usciva Claudia notò che si appoggiava al muro, la sua mano scivolava sulla parete, come se fosse alla ricerca di un contatto. Claudia pensò che fosse ubriaco già a quell'ora del giorno, poi si accorse che aveva bevuto un te caldo, decise di andarsene, prima passò di fronte a Michele e lui la richiamò. “Lo conoscevi?” “Veramente no” “Giorgio è una bravissima persona, ha una sensibilità unica, e un'intelligenza fuori dalla media, non ho dubbi sul fatto che deve essere stata una buona chiacchierata, è proprio vero quello che dicono su quelli come “lui” “Come lui in che senso?” “Non te ne sei accorta?” “Di cosa?” “Del fatto che non ci vede, da quello che so dovrebbe essere cieco dalla nascita”. L'unica cosa che riuscì a dire Claudia fu “Che sfortuna”, quando in realtà avrebbe voluto dire “Quanto sono stata stupida!”.


Giorgio stava sorridendo, anche se era triste per la ragazza, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, ma non era riuscita ad accorgersi del suo handicap, il che riconfermava la sua tesi, oppure era stato bravo lui a non farlo capire. Stava pensando a quanto certe volte le persone non si rendano conto di essere loro in prima posizione a essere il proprio problema. Avrebbe voluto vederla, ma forse era stato meglio così, non aveva sbagliato di un millimetro il suo giudizio, non si era fatto ingannare. Sentì il calore del sole sulla pelle, levò gli occhiali e restò un paio di minuti a guardare il sole con i suoi occhi spenti che brillavano di luce riflessa. Sorridendo, era uno dei pochi che lo aveva visto veramente, solo percependolo, senza averne mai visto la luce. 

venerdì 4 dicembre 2015

Play

Mise le cuffie e premette il tasto Play, si lasciò andare alla musica e iniziò a camminare. Era così estraniato dalla realtà che non si rendeva conto di dove stava andando, senza meta, la musica gli dava lo scopo, gli dava la motivazione di camminare e gli bastava. Il ritmo si confondeva con i passi, la scarica di adrenalina e la voglia di scatenarsi lo avevano preso completamente, neanche si accorse che la sua testa stava ondeggiando a tempo, un passo dopo l'altro. Ascoltava con tutto se stesso la canzone e il suo corpo rispondeva, la sua mente era completamente coinvolta. Quello che gli piaceva era indovinare le canzoni che la gente intorno a lui stava suonando, per lui ogni persona cantava qualcosa, così l'uomo che passeggiava con il cane aveva la sua colonna sonora, il ragazzo che pedalava seguiva il tempo, tutto sembrava suonare così perfetto. Come se avesse indossato un paio di occhiali particolari che gli facevano percepire la realtà in maniera diversa, i colori assumevano un altro significato, si sentiva coinvolto dal rosso, respinto dal blu, attratto dal nero, ipnotizzato dal bianco e tutte queste sensazioni cambiavano al cambiare della musica. Cambiava anche il suo approccio alla realtà, il suo volta passava dall'allegria alla rabbia alla grinta nel giro di pochi minuti. Passò di fronte a un bar in cui un gruppo di avventori maschi allegri stavano conversando animatamente di qualcosa e doveva essere stato qualcosa di molto importante, tutti ridevano, probabilmente raccontando qualche aneddoto divertente sulla giornata appena passata.
Sentiva come il bisogno di amplificare la musica, farla ascoltare a tutti, coinvolgere tutta la realtà in quel concerto. Faceva parlare se stesso attraverso la musica, i ricordi si ripresentavano ad ogni canzone, ognuna di esse era collegata a qualcosa, ognuna faceva riaffiorare qualche emozione o sentimento sepolto, come le onde sulla riva i ricordi andavano e venivano.
La musica come condanna e come salvezza, lo costringeva a ricordare, lo costringeva a ricordarsene, una bella maledizione. Amava la riproduzione casuale, permetteva che non fosse lui a scegliere che ricordo far emergere, come un jukebox che va in cerca del disco, la sua mente pescava dovunque ed era sempre la colonna sonora giusta. E camminava, camminava, almeno finché non emersero certi ricordi, cercò un posto dove sedersi e rimase lì fino alla fine della canzone, quasi per rispetto di quella melodia, intimorito. Osservò un uomo intento a scaricare degli scatoloni in un locale, contento del suo lavoro, si stava impegnando al massimo per scaricarli dal camion. Al cambio si rialzò e riprese a camminare, accelerando il passo, il ritmo era aumentato e si sentiva carico, avrebbe alzato un camion con il rimorchio con la forza della mente.
Sembrava che la riproduzione casuale volesse fargli fare un infarto e iniziò ad aumentare il ritmo delle canzoni, finché neanche si accorse che stava correndo, i ricordi continuavano a presentarsi a flash sempre più rapidi e ne voleva sempre di più. Era intrappolato in quella dimensione e non voleva assolutamente uscirne. Urtò per sbaglio un paio di ragazze che chiacchieravano, quella di destra stava probabilmente descrivendo il suo nuovo acquisto, almeno così sembrava da come stava guardando il vestito che indossava, di certo lo aveva comprato per fare bella figura con qualcuno. Condivideva la loro allegria. All'improvviso con un passo un po' più lungo fece saltare il cavo del jack delle cuffie e il sogno si interruppe per qualche secondo, mentre la cacofonia della realtà iniziava a fare presa sulla sua mente, febbrilmente inserì il jack e premette il Play che subito lo proiettò nel suo mondo. Per fortuna, aveva rischiato grosso, rischiato di perdere tutto il contatto con il mare di ricordi. Per fortuna tutto riprese nella giusta maniera e lui riprese a camminare, stavolta facendo attenzione. Ma non riusciva a scrollarsi di dosso il rumore della realtà che difficilmente andava a ritmo con la sua maniera di pensare, per fortuna c'era la musica.
Per quanto tempo aveva camminato? Si era estraniato così tanto dalla realtà che neanche si era reso conto che si era fatto tardi, così girò i tacchi pronto a ripetere di nuovo tutta la strada. In pieno delirio di ricordi la musica si interruppe. Subito abbassò lo sguardo per accertarsi che il jack non si fosse ancora una volta disinserito, ma era tutto a posto. La batteria, il telefonino si era scaricato ed ora era costretto a camminare senza musica. Così si levò le cuffie e continuò a camminare verso casa. Intanto la realtà e la sua colonna sonora lo avevano colpito come un pugno in faccia, ma si accorse di poter sopravvivere. Incappò nuovamente nelle due ragazze e riuscì a sentire di cosa stessero parlando, la ragazza del vestito nuovo si stava vantando di come quell'acquisto fosse stato intelligente e di come avrebbe fatto schiattare d'invidia le amiche. Questo intristì un po' il ragazzo che aveva fatto una valutazione affrettata della situazione. D'altronde non tutto può avere una buona motivazione. Mentre pensava ancora alle ragazze rivide l'uomo intento a scaricare dal camion. Stava borbottando tra sé che non vedeva l'ora che la giornata finisse per riposarsi, che non ne poteva più di quel lavoro da mulo. Certo che pareva così contento all'andata, ma probabilmente era stata la musica a fargli sbagliare la valutazione, ma poteva succedere. La sua percezione della realtà era stata falsata dalla colonna sonora, distorta dagli occhiali che stava indossando.

Stava pensando a quanto la musica gli servisse per percepire quello che lo circondava e quanto si sbagliasse nel farci affidamento, anche se non sapeva quale versione preferire, se quella reale o quella musicale. A dargli il colpo di grazia fu la compagnia di ragazzi al bar, stavano parlando delle conquiste delle sere precedenti, materialismo e discorsi da bar allo stato puro. Completamente abbattuto arrivò a casa, solo per incontrare la madre che gli chiese di come fosse andata la passeggiata. Lui non rispose, andò diretto in camera a recuperare il caricatore del telefono. Ritornò dalla madre, le fece indossare le cuffie, mise la canzone giusta e iniziò a spiegarle come era andata. Mentre immaginava quello che il figlio le stava raccontando la madre sorrise. Era stata una stupenda passeggiata. E il flusso di ricordi stava per attraversarla per liberarla di tutti i pesi della realtà.