Tirai
su il cappuccio del giubbotto, maledetto io e la mia mania di uscire
senza ombrello, quando l'arrivo della pioggia era così palese. Anche
se da un lato mi piaceva prendere la pioggia, mi aiutava a pensare,
pensare a tutto e a nulla, della pioggia amavo il catarsi, quel
processo di purificazione accompagnato dal picchiettio dolce che
ricopriva tutto e riempiva i timpani.
La
pioggia noncurante, come il resto del mondo, iniziava a riempire ogni
spazio o intercapedine disponibile, generando laghi e ruscelli dove
poteva.
Io
nel frattempo mettevo i piedi nei laghi, guadavo fiumi, altri laghi
venivano superati saltellando, come se fossi terrorizzato dal solo
contatto.
Il
grigio scuro con le note di blu riempiva tutto creando quella cappa
di tristezza per cui è nota la pioggia. A me, al contrario, quel
colore riempiva gli occhi, l'umidità mi riempiva la bocca, il
profumo di bagnato mi saturava le narici, il rumore mi entrava nel
cranio e attutiva ogni pensiero. In quel momento mi prese l'allegria,
vecchia compagna di avventure, chissà per quale motivo, so che
iniziai a sorridere.
Abbassai
il cappuccio e alzai la testa verso il cielo e lasciai che le gocce
mi accarezzassero il viso, avevo tutti i sensi impegnati, ma quello
che amavo di più era il tatto, il dolce colpire di quelle
piccolissime dita sul mio volto, era impagabile.
Continuai
a camminare in quel delta di rigagnoli che sfociavano a cascata sulla
strada, ero saturo, pieno emotivamente.
Una
delle migliori sensazioni possibili, essere completamente coinvolti
in qualcosa, mi permetteva di mettere il cervello in pausa, lasciarmi
andare alla corrente. Lasciarmi trascinare come le foglioline
trasportate dall'acqua ai lati del marciapiede.
Continuavo
a sorridere. E sorridevo. E quanto avrei continuato, ma iniziavo a
bagnarmi troppo mentre la pioggia diventava un acquazzone. Cercai
riparo sotto una pensilina dell'autobus, sotto la luce sporca di un
lampione vecchio quanto mio padre. Dal sorridere passai al ridere,
ridere di gusto, mi stavo sfogando, ridevo di diaframma, ogni muscolo
coinvolto dallo spasmo e ridevo. Mi scompigliai i capelli con la mano
sinistra, facendo volare gocce dovunque, anche se qualche temeraria
rimase appesa con tenacia. E ridevo.
Almeno
finché il leggero picchiettare della pioggia non venne interrotto da
un rumore strano. Sciac, da un vicolo di lato, sciac convinto, sciac
sciac impertinente, quel rumore di passi di corsa, mi bloccai a
osservare l'entrata del vicolo.
Il
suono si fece molto più convinto, finché una ragazza non uscì
correndo dalla stradina. Si fermò a fare una piroetta sotto il
lampione, ignara che la stessi guardando, che ci fosse qualcuno lì
intorno. Mentre piroettava intravidi il suo volto, una frazione di
secondo, mentre passava dalla luce fioca del lampione al cono d'ombra
circostante. Vidi il suo sorriso, così perfetto, e gli occhi chiusi,
intenta a pensare a chissà cosa.
Poi
finalmente si accorse di me. Si immobilizzò, congelata. L'unica cosa
in movimento su di lei erano le gocce d'acqua che impertinenti
continuavano a scendere dalla punta dei suoi capelli, per poi
fermarsi sull'asfalto. Mi stava fissando mentre la pioggia cadeva,
poi capì la situazione, probabilmente vergognandosi si avvicinò
alla pensilina.
Le
feci spazio. La pioggia riempiva tutto, il suo rumore fortunatamente
copriva il silenzio imbarazzante che si era creato. Finché non
decisi di romperlo.
“Sorridi
spesso sotto la pioggia?”.
“Quando
sono sola sempre”.
“E
sei spesso sola?”.
“Non
quanto vorrei”, questo lo disse iniziando a guardarmi. Forse ero
stato troppo aggressivo. Dovevo abbassare il livello della
conversazione.
“Anche
io sorrido sotto la pioggia, mi piace” non so perché me la fossi
rischiata così, francamente era una sconosciuta, carina, ma pur
sempre una sconosciuta. Sembrava che a una parte di me non
interessasse il distaccamento da quella situazione.
Prese
lei le redini del discorso.
“E
sai cosa mi piace ancora di più? Soprattutto con la pioggia”.
“Fare
piroette?”
“Non
troppo a dir la verità, mi piace tornare a casa, farmi una bella
doccia calda, e poi farmi un the, berlo ancora bollente e infilarmi
sotto le coperte”.
“Condivido
alla grande”.
Con
una risposta a cazzo del genere, completamente onesta, ma stupida
quanto un paio di trampoli per un pinguino, avevo suscitato la sua
attenzione.
Lei
iniziò a fissarlo, vedeva delle gocce solitarie scendere dalla sua
fronte, posarsi sulle sue labbra, e quanto le invidiava, le avrebbe
raccolte tutte. Dall'altro lato lui osservava i suoi capelli lunghi,
che gocciolavano un po' dovunque, e quelle piccole temerarie
scendevano a farle il contorno, segnando linee sul suo collo, curve
sul suo petto, e le avrebbe seguite dovunque, viaggiando su quelle
strade, perdendosi in quel viaggio. Erano due perfetti sconosciuti,
eppure sembrava che si conoscessero da sempre. Che avessero vissuto
in luce di quel momento.
Poi
lei ruppe il silenzio.
“The
caldo in compagnia?”
“Perchè
no?”
“Abito
qua vicino, basta prendere una delle vie laterali e siamo a casa mia”
“Andiamo
allora”
Mi
prese per mano e mi iniziò a trascinare quasi correndo, attraverso
pozzanghere che ormai non erano più laghi, attraverso fiumi che
altro non erano che rigagnoli, non ero più terrorizzato dal
pestarli, attraversavo tutto, senza rispetto. Stavamo correndo nel
vicolo, nella penombra, sotto la pioggia, entrambi sorridendo.
Pensavo al the e alla bustina in infusione, quel leggero macchiarsi
dell'acqua trasparente, il lento diffondersi dei pigmenti, come le
radici di una pianta che crescono, la lenta diffusione del profumo.
La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Lei
stava pensando al calore della fiamma sul bollitore, calore della
tazza in ceramica, il dolore alle mani nel tenerla, il calore della
casa, la sensazione di bruciore nello stomaco dell'acqua bollente. La
lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Si
guardarono per mezzo secondo sorridenti e capirono tutte le promesse
che erano celate sotto quella tazza di the. Accettarono entrambi a
occhi chiusi. Avrebbero bevuto quel the caldo. Firmarono senza
riserva tutte le clausole che quell'incontro celava e se ne assunsero
le responsabilità. Correvano sorridendo sotto l'acqua che ormai era
passata in secondo piano. Ormai avevano passato questo livello di
sensibilità. Erano dentro in casa. Seduti a fissarsi di fronte al
vapore, con le mani a coppa. Gocciolanti, sorridenti.
“Tempo
da lupi”, questo pensava l'autista dell'autobus, era un po'
scocciato, odiava lavorare con quel tempo, la pioggia fitta allagava
sempre le strade, e lui era costretto a sollevare delle onde enormi
al suo passaggio, aggiungici poi che la compagnia in quel turno
serale era quella che era, solita anziana signora ansiosa di fare
chiacchiere, classica cliente insopportabile, messa lì appunto per
spiegare il significato del cartello alla sua destra “Non
disturbare il conducente”. Ma lei impertinente continuava a parlare
della sua vita, come se a lui potesse interessare qualcosa. “Proprio
un tempo da lupi” “Eh già, il mondo sta andando a pezzi, anche
le piogge non sono più quelle di una volta, basta che piova per
un'ora e si allaga qualcosa”. “Piove, governo ladro” pensava il
conducente, quella donna era un luogo comune che aveva preso vita.
“Grazie a dio è l'ultima mia corsa, non vedo l'ora di finire a
casa al calduccio”. Intanto la signora faceva cadere le parole in
testa al conducente come fosse pioggia, forse con più frequenza che
le gocce che cadevano fuori. “Signora gentilmente può evitare di
disturbarmi per un secondo? Non vedo molto con la pioggia fitta. Poi
qui è pieno di pozzanghere. Speriamo che il Comune si decida a
riempir..”. Proprio in quel momento i due ragazzi uscirono di corsa
da un vicolo laterale, il conducente provò anche a frenare e ce
l'avrebbe fatta se non fosse stato per l'eccessiva acqua che c'era
sull'asfalto.
Luce
improvvisa. Schianto, poi più nulla.
Lei
era stata scaraventata 4 metri più avanti, probabilmente l'urto le
aveva spezzato sul colpo le vertebre cervicali, il viso ancora
contorto in un qualcosa che sotto le bruciature da contatto
nascondeva ancora la parvenza del sorriso. Neanche aveva fatto in
tempo a rendersene conto. Sul colpo, doveva aver percepito solo il
calore dei fari a 3000 lumen sul corpo. Poi più nulla.
Lui
era stato più sfortunato, era stato colpito dalla forza d'impatto e
si era sicuramente fratturato il bacino e un paio delle ultime
vertebre, in compenso le costole gli avevano perforato il petto. Si
stava dissanguando. Lentamente il sangue si mescolava con l'acqua, e
correva intorno, si diffondeva come il the nell'acqua calda,
lentamente la vita lo stava lasciando. Steso con il viso verso il
cielo ormai nero, le gocce scendevano sul suo viso. Nonostante tutto,
noncurante della situazione, il suo labbro si incurvò a formare un
sorriso, mentre dalle dita cadevano gocce di sangue che creavano
radici che lentamente si dirigevano ai lati della strada. Una goccia
cadde sul suo labbro e gli entrò in gola. In quel corpo martoriato
che stava dipingendo la strada. Quando la goccia d'acqua gli scese
per la gola pensò che forse era meglio il the caldo.
Sicuramente
era meglio.
La
lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.