giovedì 4 febbraio 2016

Bugie di Pietra

Ormai erano 2 anni che il mondo conviveva con il morbo, fior fiore di ricercatori e scienziati avevano lavorato giorno e notte per ricercare una eventuale cura, ma non sembrava esserci soluzione a questa malattia.
Volgarmente la chiamavano il Silenzio, ti costringeva a stare zitto, Marco ricordava ancora il giorno zero, non c’era stato nessun preavviso, nessuna possibilità di fermare il contagio, ce l’avevano tutti, incubata da chissà che parte del proprio DNA, dormiente, pronta a presentarsi. Tutte le persone che erano sul pianeta in quel momento portavano i segni di quel giorno, non c’era stato modo di accorgersene, nessuna maniera di salvarsi, nessuna cura palliativa. Marco faceva parte dei fortunati che quel giorno avevano subito gli effetti minori. Medici e ricercatori erano riusciti a capire che in qualche maniera la malattia agiva sull’ipofisi e sul meccanismo di rilascio di ormoni che regolava le emozioni mentre la persona raccontava una bugia, la punizione era severa, il corpo si trasformava in pietra, estendendosi a seconda della pesantezza della bugia, dunque una bugia leggera al massimo ti lasciava un segno leggero sulla pelle, ma una importante, una imperdonabile, poteva costarti la vita, ognuno sul pianeta portava almeno un segno di quel giorno, i più fortunati almeno.
Quel giorno bugiardi seriali vennero condannati a una fine orribile, politici dopo conferenze e comizi, mariti con mogli, mogli con mariti, fidanzati, amanti, amici, vennero puniti, nel giro di un paio d’ore trasformati in statue di pietra, da quante ne avevano raccontate. Poteva sembrare una benedizione per la società umana, l’onestà obbligata, ma invece di portare progresso aveva fatto regredire l’umanità a un medioevo, non c’era possibilità di indorare la pillola, nessuna possibilità di perdono, se sbagliavi ne pagavi il prezzo. La punizione era certa. Le varie religioni erano tornate alla ribalta con la scusa della punizione divina e del pentimento che avrebbe curato la malattia, i rapporti interpersonali erano completamente rovinati, non c’era modo di poter mantenere una conversazione o un rapporto, dunque gran parte delle persone sceglieva il silenzio a tutto il resto. Quelli che avevano pagato di più questa situazione erano purtroppo i bambini, se gli adulti potevano scegliere il silenzio, i bambini ancora non capivano il significato di bugia e lo imparavano sulla propria pelle. Innocenti bugie bianche su chi avesse mangiato la marmellata o su chi avesse colorato i muri di casa adesso costavano centimetri di pelle, che inevitabilmente si trasformava in roccia.
Marco in tutto questo cercava di sopravvivere, ormai vivere era un lusso, il morbo aveva mandato in crisi l’economia mondiale, il commercio, anche le banche erano fallite, d’altronde come poteva un commerciante venderti qualcosa a un prezzo superiore o fare un affare, costretto a non poter raccontare bugie. Forse per qualcuno era il mondo perfetto, completamente onesto, ma talvolta forse tra persone necessitiamo di bugie stupide, del contentino per salvarci dalla cruda verità. La fortuna di Marco era quella di essere stato sempre considerato uno stronzo, che non aveva filtri, diceva subito quello che pensava, anche a costo di ferire la persona che aveva di fronte, ma anche lui portava qualche cicatrice, una parte dell’arcata sopraccigliare sinistra, l’avambraccio destro e la scapola sinistra erano di pietra ormai. Credeva che ne fosse valsa la pena, ricordava ognuna di quelle bugie, non le avrebbe mai dimenticate. L’avambraccio destro con suo nonno che gli aveva chiesto una mano a riordinare il giardino un pomeriggio, non gli andava proprio di aiutarlo, ma dato che gli voleva bene si era reso disponibile, e alla domanda del nonno “Hai voglia o hai di meglio da fare? Vedi che non ti trattengo se hai qualche impegno” rispose “ Nessun problema nonno! Sai che mi fa piacere aiutarti”. E alla sera quando l’avambraccio aveva iniziato a prudergli, era contento, ne era valsa la pena. L’arcata sopraccigliare sinistra gli era costata con un’amica che aveva bisogno di tempo per raccontargli dei suoi problemi e lui, pazientemente, rimase ad ascoltare anche se non poteva fregargliene di meno, ma doveva farlo per amicizia. La scapola sinistra invece era una bugia egoista che aveva raccontato a sua madre e quasi gli era costata la vita, uno dei primi giorni in cui il morbo aveva iniziato a presentarsi e ancora non si era capita la causa, sua madre gli aveva chiesto se fosse felice e lui le aveva mentito spudoratamente. Ma tutto sommato ne era contento, quel sorriso ne valeva tutta la pena.
Marco ora si frequentava con una ragazza di nome Anna, anche se il rapporto era molto strano, non si parlavano, per paura delle conseguenze, semplicemente trascorrevano tempo insieme, tempo di qualità, ma nessuna domanda personale o domande generiche, si conoscevano poco, ma stavano bene insieme. Forse anche troppo. Stava andando da lei in quel momento.
Viveva o meglio sopravviveva in un appartamento al terzo piano di un vecchio palazzo, ormai vuoto, gli altri inquilini erano scomparsi tutti, probabilmente trasformati in statue.
Entrando nell’appartamento lei lo accolse con un lungo abbraccio, fece partire un po’ di musica e mise la caffettiera sul fuoco. Oh se la amava, amava quei fianchi che andavano a tempo, amava anche il caffè, era in pace con se stesso, avevano un tipo di complicità molto particolare, fatta più di silenzi che di parole, fatta di sguardi più che di contatti, e lui ne impazziva. Come un assetato in un deserto guardava l’oasi, lui pendeva dalle sue labbra. E la complicità si sentiva in ogni cosa, fossero seduti in silenzio ad ascoltare buona musica, stessero camminando, facendo l’amore o qualsiasi altra cosa si creava un campo di energia elettrostatica intorno a loro, era evidente, sembravano essere arrivati ad un altro livello di coscienza, dove nessuno poteva toccarli, con uno sguardo si raccontavano giornate, sfiorandosi si passavano emozioni, scegliendo musica si raccontavano.
Tra tazzine di caffè, musica e occhiate passarono l’intero pomeriggio, sfiorandosi un paio di volte, non aprendo bocca. Concedendo al silenzio il rispetto che meritava, troppo terrorizzati per rompere l’equilibrio.

Ormai si era fatta sera e Marco aveva notato una certa pesantezza negli occhi di Anna, per cui decise che era ora di andare, fece per alzarsi, ma lei lo bloccò con il braccio, lo prese per mano e lo portò in camera da letto. Lo spinse con foga sul letto e quasi gli strappò i pantaloni di dosso, gli montò sui fianchi e si levò la camicetta, Marco non poté fare a meno di non notare per l’ennesima volta le macchie di pietra frutto di vecchie bugie sul suo corpo, un lato della clavicola sinistra, il gluteo sinistro e un lato della coscia destra, si domandava sempre quali potessero essere state le bugie che le erano costate quelle cicatrici, lei iniziò a esplorare il suo collo con la bocca, mentre con le mani gli teneva il volto stretto in una morsa, come a evitare che scappasse, le mani da lì si spostarono ai suoi capelli, aggrovigliandosi e sciogliendosi, senza proferire parola, lui intanto la osservava, trascinato da quella corrente di emozioni, voleva stringerla, farla sua in quel momento, ma lasciò che lei si prendesse il suo tempo. Le loro mani esploravano ogni curva, ogni insenatura e le sue mani facevano porto in quelle baie senza volersene più andare.

Stavano per addormentarsi.
Marco si assunse un grandissimo rischio: “Ti Amo”.
Anna rispose: “Ti Amo”.
E sprofondarono nel deliquio.




Nota dell’Autore(pffffff. Ahahah): visto che traumatizzo gran parte delle persone con i finali tristi, ne ho scritti due, anche perché più di qualcuno lo vuole. E qualcuno mi ha obbligato a scriverne uno di buono. Restando nel tema del racconto, spesso è meglio una piccola bugia che una verità pesante come una roccia, a voi la scelta su quale finale vi piaccia di più, vi rappresenta di più, vorreste che ci fosse. Il primo sarà quello triste, il secondo quello buono. Buona lettura.




Il mattino dopo era nuvoloso, la casa era vuota. Niente musica, nessuna caffettiera sui fornelli, erano ancora a letto, nella stessa posizione in cui si erano addormentati, c’era un silenzio nella camera, quasi come si fosse fermato il tempo nell’intera stanza. C’era pace, calma, tranquillità.
A mezzogiorno erano ancora lì, nessuna voglia di muoversi, anche durante tutto il pomeriggio, fino alla sera, fino al mattino seguente. Stavolta il sole fece capolino tra i balconi e una lama di luce tagliò a metà la stanza, andando a tagliare i due corpi immobili, grigi, abbracciati l’uno all’altro, come un’opera di qualche scultore neoclassico. In equilibrio. Da fotografia in un libro d’arte, con tanto di descrizione. Fuori dal palazzo la gente continuava a sopravvivere, noncurante, silenziosa.

“Che giornata di merda!” esordì un passante, che passava camminando lì sotto. Non aveva paura che il morbo lo punisse, era la sacrosanta verità.





Il mattino dopo era nuvoloso, una di quelle giornate da chiudersi in casa e vivere d’amore e chiacchiere, Anna si era svegliata ed era andata a metter sul fuoco la caffettiera, non prima però di avergli dato un pudico bacio alla base della clavicola, mentre lui ancora mugugnava mentre annaspava per uscire dalla fase del sonno profondo. Mise un paio di canzoni per svegliarsi, di quelle calme, rilassanti, poco ritmo, che ti accompagnano il risveglio, mentre Marco avrebbe preferito qualche canzone bella carica per svegliarsi.
Incespicò fino alla cucina dove c’era lei, radiosa, in un pigiama che era tutt’altro che sexy, ma a lui non importava nulla.

“Ho fatto il caffelatte, ti piace vero?”.
“Molto”.

Iniziò a sentire un prurito familiare sul polpaccio destro dove il morbo lo stava punendo per la bugia e iniziò a sorridere. Ne valeva la pena.

“Che giornata stupenda!” disse. Non aveva paura che il morbo lo punisse, era la sacrosanta verità.

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