Ormai erano 2 anni che il mondo
conviveva con il morbo, fior fiore di ricercatori e scienziati avevano lavorato
giorno e notte per ricercare una eventuale cura, ma non sembrava esserci
soluzione a questa malattia.
Volgarmente la chiamavano il Silenzio,
ti costringeva a stare zitto, Marco ricordava ancora il giorno zero, non c’era
stato nessun preavviso, nessuna possibilità di fermare il contagio, ce l’avevano
tutti, incubata da chissà che parte del proprio DNA, dormiente, pronta a
presentarsi. Tutte le persone che erano sul pianeta in quel momento portavano i
segni di quel giorno, non c’era stato modo di accorgersene, nessuna maniera di
salvarsi, nessuna cura palliativa. Marco faceva parte dei fortunati che quel
giorno avevano subito gli effetti minori. Medici e ricercatori erano riusciti a
capire che in qualche maniera la malattia agiva sull’ipofisi e sul meccanismo
di rilascio di ormoni che regolava le emozioni mentre la persona raccontava una
bugia, la punizione era severa, il corpo si trasformava in pietra, estendendosi
a seconda della pesantezza della bugia, dunque una bugia leggera al massimo ti
lasciava un segno leggero sulla pelle, ma una importante, una imperdonabile,
poteva costarti la vita, ognuno sul pianeta portava almeno un segno di quel
giorno, i più fortunati almeno.
Quel giorno bugiardi seriali vennero
condannati a una fine orribile, politici dopo conferenze e comizi, mariti con
mogli, mogli con mariti, fidanzati, amanti, amici, vennero puniti, nel giro di
un paio d’ore trasformati in statue di pietra, da quante ne avevano raccontate.
Poteva sembrare una benedizione per la società umana, l’onestà obbligata, ma
invece di portare progresso aveva fatto regredire l’umanità a un medioevo, non
c’era possibilità di indorare la pillola, nessuna possibilità di perdono, se
sbagliavi ne pagavi il prezzo. La punizione era certa. Le varie religioni erano
tornate alla ribalta con la scusa della punizione divina e del pentimento che
avrebbe curato la malattia, i rapporti interpersonali erano completamente
rovinati, non c’era modo di poter mantenere una conversazione o un rapporto,
dunque gran parte delle persone sceglieva il silenzio a tutto il resto. Quelli
che avevano pagato di più questa situazione erano purtroppo i bambini, se gli
adulti potevano scegliere il silenzio, i bambini ancora non capivano il
significato di bugia e lo imparavano sulla propria pelle. Innocenti bugie
bianche su chi avesse mangiato la marmellata o su chi avesse colorato i muri di
casa adesso costavano centimetri di pelle, che inevitabilmente si trasformava
in roccia.
Marco in tutto questo cercava di
sopravvivere, ormai vivere era un lusso, il morbo aveva mandato in crisi l’economia
mondiale, il commercio, anche le banche erano fallite, d’altronde come poteva
un commerciante venderti qualcosa a un prezzo superiore o fare un affare,
costretto a non poter raccontare bugie. Forse per qualcuno era il mondo
perfetto, completamente onesto, ma talvolta forse tra persone necessitiamo di
bugie stupide, del contentino per salvarci dalla cruda verità. La fortuna di
Marco era quella di essere stato sempre considerato uno stronzo, che non aveva
filtri, diceva subito quello che pensava, anche a costo di ferire la persona
che aveva di fronte, ma anche lui portava qualche cicatrice, una parte dell’arcata
sopraccigliare sinistra, l’avambraccio destro e la scapola sinistra erano di
pietra ormai. Credeva che ne fosse valsa la pena, ricordava ognuna di quelle
bugie, non le avrebbe mai dimenticate. L’avambraccio destro con suo nonno che
gli aveva chiesto una mano a riordinare il giardino un pomeriggio, non gli
andava proprio di aiutarlo, ma dato che gli voleva bene si era reso
disponibile, e alla domanda del nonno “Hai voglia o hai di meglio da fare? Vedi
che non ti trattengo se hai qualche impegno” rispose “ Nessun problema nonno!
Sai che mi fa piacere aiutarti”. E alla sera quando l’avambraccio aveva
iniziato a prudergli, era contento, ne era valsa la pena. L’arcata
sopraccigliare sinistra gli era costata con un’amica che aveva bisogno di tempo
per raccontargli dei suoi problemi e lui, pazientemente, rimase ad ascoltare
anche se non poteva fregargliene di meno, ma doveva farlo per amicizia. La
scapola sinistra invece era una bugia egoista che aveva raccontato a sua madre
e quasi gli era costata la vita, uno dei primi giorni in cui il morbo aveva
iniziato a presentarsi e ancora non si era capita la causa, sua madre gli aveva
chiesto se fosse felice e lui le aveva mentito spudoratamente. Ma tutto sommato
ne era contento, quel sorriso ne valeva tutta la pena.
Marco ora si frequentava con una ragazza
di nome Anna, anche se il rapporto era molto strano, non si parlavano, per
paura delle conseguenze, semplicemente trascorrevano tempo insieme, tempo di
qualità, ma nessuna domanda personale o domande generiche, si conoscevano poco,
ma stavano bene insieme. Forse anche troppo. Stava andando da lei in quel
momento.
Viveva o meglio sopravviveva in un appartamento
al terzo piano di un vecchio palazzo, ormai vuoto, gli altri inquilini erano
scomparsi tutti, probabilmente trasformati in statue.
Entrando nell’appartamento lei lo
accolse con un lungo abbraccio, fece partire un po’ di musica e mise la
caffettiera sul fuoco. Oh se la amava, amava quei fianchi che andavano a tempo,
amava anche il caffè, era in pace con se stesso, avevano un tipo di complicità
molto particolare, fatta più di silenzi che di parole, fatta di sguardi più che
di contatti, e lui ne impazziva. Come un assetato in un deserto guardava l’oasi,
lui pendeva dalle sue labbra. E la complicità si sentiva in ogni cosa, fossero
seduti in silenzio ad ascoltare buona musica, stessero camminando, facendo l’amore
o qualsiasi altra cosa si creava un campo di energia elettrostatica intorno a
loro, era evidente, sembravano essere arrivati ad un altro livello di
coscienza, dove nessuno poteva toccarli, con uno sguardo si raccontavano
giornate, sfiorandosi si passavano emozioni, scegliendo musica si raccontavano.
Tra tazzine di caffè, musica e occhiate
passarono l’intero pomeriggio, sfiorandosi un paio di volte, non aprendo bocca.
Concedendo al silenzio il rispetto che meritava, troppo terrorizzati per
rompere l’equilibrio.
Ormai si era fatta sera e Marco aveva
notato una certa pesantezza negli occhi di Anna, per cui decise che era ora di
andare, fece per alzarsi, ma lei lo bloccò con il braccio, lo prese per mano e
lo portò in camera da letto. Lo spinse con foga sul letto e quasi gli strappò i
pantaloni di dosso, gli montò sui fianchi e si levò la camicetta, Marco non
poté fare a meno di non notare per l’ennesima volta le macchie di pietra frutto
di vecchie bugie sul suo corpo, un lato della clavicola sinistra, il gluteo
sinistro e un lato della coscia destra, si domandava sempre quali potessero
essere state le bugie che le erano costate quelle cicatrici, lei iniziò a
esplorare il suo collo con la bocca, mentre con le mani gli teneva il volto
stretto in una morsa, come a evitare che scappasse, le mani da lì si spostarono
ai suoi capelli, aggrovigliandosi e sciogliendosi, senza proferire parola, lui
intanto la osservava, trascinato da quella corrente di emozioni, voleva
stringerla, farla sua in quel momento, ma lasciò che lei si prendesse il suo
tempo. Le loro mani esploravano ogni curva, ogni insenatura e le sue mani
facevano porto in quelle baie senza volersene più andare.
Stavano per addormentarsi.
Marco si assunse un grandissimo rischio:
“Ti Amo”.
Anna rispose: “Ti Amo”.
E sprofondarono nel deliquio.
Nota dell’Autore(pffffff. Ahahah): visto che
traumatizzo gran parte delle persone con i finali tristi, ne ho scritti due,
anche perché più di qualcuno lo vuole. E qualcuno mi ha obbligato a
scriverne uno di buono. Restando nel tema del racconto, spesso è meglio una
piccola bugia che una verità pesante come una roccia, a voi la scelta su quale
finale vi piaccia di più, vi rappresenta di più, vorreste che ci fosse. Il primo
sarà quello triste, il secondo quello buono. Buona lettura.
Il mattino dopo era nuvoloso, la casa
era vuota. Niente musica, nessuna caffettiera sui fornelli, erano ancora a
letto, nella stessa posizione in cui si erano addormentati, c’era un silenzio
nella camera, quasi come si fosse fermato il tempo nell’intera stanza. C’era
pace, calma, tranquillità.
A mezzogiorno erano ancora lì, nessuna
voglia di muoversi, anche durante tutto il pomeriggio, fino alla sera, fino al
mattino seguente. Stavolta il sole fece capolino tra i balconi e una lama di
luce tagliò a metà la stanza, andando a tagliare i due corpi immobili, grigi,
abbracciati l’uno all’altro, come un’opera di qualche scultore neoclassico. In
equilibrio. Da fotografia in un libro d’arte, con tanto di descrizione. Fuori
dal palazzo la gente continuava a sopravvivere, noncurante, silenziosa.
“Che giornata di merda!” esordì un
passante, che passava camminando lì sotto. Non aveva paura che il morbo lo
punisse, era la sacrosanta verità.
Il mattino dopo era nuvoloso, una di
quelle giornate da chiudersi in casa e vivere d’amore e chiacchiere, Anna si era
svegliata ed era andata a metter sul fuoco la caffettiera, non prima però di
avergli dato un pudico bacio alla base della clavicola, mentre lui ancora
mugugnava mentre annaspava per uscire dalla fase del sonno profondo. Mise un
paio di canzoni per svegliarsi, di quelle calme, rilassanti, poco ritmo, che ti
accompagnano il risveglio, mentre Marco avrebbe preferito qualche canzone bella
carica per svegliarsi.
Incespicò fino alla cucina dove c’era
lei, radiosa, in un pigiama che era tutt’altro che sexy, ma a lui non importava
nulla.
“Ho fatto il caffelatte, ti piace vero?”.
“Molto”.
Iniziò a sentire un prurito familiare sul
polpaccio destro dove il morbo lo stava punendo per la bugia e iniziò a
sorridere. Ne valeva la pena.
“Che giornata stupenda!” disse. Non
aveva paura che il morbo lo punisse, era la sacrosanta verità.
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