martedì 17 maggio 2016

A Tarda Ora

Il Silenzio era chiaro, solo la sua musica e quello spazio vuoto, libero dalle parole, libero dal ritmo, tra una canzone e l’altra, era l’ora giusta, l’ora in cui si sentiva in sintonia con il mondo. Abbassò lo sguardo sul suo polso sinistro, c’era solo la retroilluminazione bassa dello schermo a rompere quel nero che aveva intorno, sì, decisamente era l’ora giusta.
Si alzò dalla scrivania e decise di cambiarsi facendo meno rumore possibile, qualcosa di comodo, giusto per fare due passi, forse anche un maglione sarebbe servito, era freddino verso quell’ora, un po’ alla volta il piano iniziò a delinearsi nella sua testa, le sinapsi iniziavano a fare processi strani, forse per la stanchezza, forse per l’ora, preparò il caffè, mentre la caffettiera si scaldava e l’acqua al suo interno iniziava a muoversi si accese una sigaretta. Tra una boccata e l’altra iniziò a guardare fuori dalla finestra, nel buio, quelle piccole luci che spaccavano il ritmo del momento, iniziò a perdersi nel flusso, almeno finché la caffettiera iniziò a sbuffare riportandolo alla realtà, trasferì il contenuto della caffettiera in un thermos, lo mise dentro uno zainetto, ricordò di recuperare le chiavi e uscì di casa, stando ben attento a non fare troppo rumore con la porta d’ingresso.

In strada non c’era nessuno, non sentiva nessuno, qualche macchina in lontananza, qualche rumore difficile da identificare rompeva malvolentieri la cappa di silenzio che vestiva quel momento. Mentre camminava pensava a come amava quest’ora, quanto lui ci si sentisse attaccato, quanto si vedesse dentro quella tranquillità. Il suo cervello era tutto ed era niente, era concentrato su mille cose, ma il pensiero che prevaleva sugli altri era quello del passo, un passo, un altro passo, uno ancora, avanti, su. Mentre si avvicinava al suo obbiettivo, pensava che, forse, la notte era sottovalutata, forse era proprio la luce a essere considerata troppo importante, forse la necessità di riempire il silenzio era sopravvalutata, forse era meglio il silenzio. Forse.

Un altro passo.
Uno ancora.

Mentre camminava si accese un’altra sigaretta e iniziò a osservare mentre a ogni respiro il tizzone della sigaretta che andava in cenere si colorava di un rosso ancora più acceso, ma inesorabilmente si consumava, più luce, più colore, si accorciava. Camminava lasciandosi indietro pensieri strani e nuvolette di fumo, come a fare da traccia, mentre il fumo si diradava, forse quelle nuvolette contenevano una parte di sé, forse un po’ di pensieri.

Era arrivato al suo obbiettivo e come programmato non c’era nessuno, oh se amava quell’ora. Si sedette su una panchina a caso, si tolse lo zaino dalle spalle mentre il vento pungente gli pungeva il viso, l’aria salmastra gli era penetrata nelle narici e il rumore delle onde che colpivano i frangiflutti lo facevano sentire quasi a casa.

Rimase fermo a rispettare quel momento per troppo tempo. Era come bloccato. Il tempo continuava a scorrere, restava comunque poco, nonostante fosse trascorso. Era arrivato il momento. Aprì lo zaino, tirò fuori il thermos e se ne versò una tazza usando il coperchio. Era ancora caldo. Quel contrasto tra il vento, il freddo, il suono del mare e il liquido caldo che gli scendeva per l’esofago era perfezione pura. Eppure sentiva che c’era vuoto. Non era triste, ma sentiva che mancava qualcosa, guardandosi intorno capì: era l’unico che stava apprezzando quel momento. Nessuno aveva avuto la sua stessa idea o la stessa volontà di farlo, forse era l’unico in grado di farlo, forse era strano, ma per lui ne era valsa tutta la pena.
Restò lì fermo ad assaporare quel momento, riusciva a vedersi dal di fuori, si sentiva bene, si sentiva nel suo posto, nel suo ambiente.
Amava quell’ora, ma forse era l’unico. Forse per quello l’amava.
Abbassò lo sguardo verso il polso sinistro e guardò l’orologio, il tempo era passato.
Quasi non si accorse della figura che si stava avvicinando nella penombra.
La figura si sedette sulla stessa panchina. Lui passò all’ombra il thermos e la figura ne prese un sorso.
Intanto rimase a fissare il mare scuro.

 “Sapevo che ti avrei trovato qui”.

Lui sorrise con il coperchio vuoto tra le mani.

“E usa la caffettiera più grande la prossima volta”.

Forse. Forse lo avrebbe fatto.
Amava quell’ora. Forse perché era l’unico. Forse perché in realtà stava parlando alla sua mente ed era solo sulla panchina con i suoi pensieri. Forse.
Si accese un’altra sigaretta mentre il sole iniziava a fare capolino tra le onde e quella timida luce prendeva lo spazio di quel buio che cedeva rispettosamente il passo. Stava per iniziare un altro giorno.


Forse.

lunedì 11 aprile 2016

Colibrì

Teneva il colibrì tra le mani, facendo attenzione a non schiacciarlo, una piccola cosa, insignificante, fragile, eppure lo osservava come fosse tutto il suo mondo, l’unica cosa importante, assoluta in quel momento.

Era posato al muro, poco gli interessava di sporcare il giubbotto di calce, aspirava il fumo avidamente e a ogni boccata una piccola nuvoletta concentrata si andava dissipando nell’aria. Grossomodo come i suoi pensieri, ogni sua idea era liquida, non riusciva ad aggrapparsi a nulla, tutto gli scorreva attraverso. Odiava quella sensazione di mancanza di controllo sul suo flusso di pensieri, ma allo stesso tempo ne era saturo. A chi lo avesse osservato da fuori sarebbe sembrato il tipico ragazzo perso nei suoi pensieri, cuffiette, sigaretta, occhiali scuri. Il giusto modo per allontanare qualsiasi tipo di contatto, mettendo direttamente in chiaro che volesse restare da solo. E la gente che lo circondava percepiva quell’esigenza, si era creata una zona intorno a lui dove altre persone restavano in silenzio oppure se ne mantenevano a distanza cercando una zona più rumorosa, quasi avessero paura di disturbare i suoi processi mentali.

Il colibrì alzò la testa e iniziò a fissarlo, lui ricambiò quello sguardo e percepì che nonostante la sua piccolezza, quell’essere vivente aveva la sua stessa voglia, la sua stessa necessità di vivere. Quella sensazione lo lasciò interdetto, dato che nella sua abituale furia di pensieri non calcolava molto quanto un’altra creatura potesse avere dei punti in comune con lui. Sorrise. Non gli capitava molto spesso.

Lei era seduta sulla panchina all’altro lato della piazza, lo aveva notato. Il suo sguardo era magnetico. Osservarlo così estraniato dalla realtà l’aveva colpita dritta nello stomaco. Le aveva suscitato troppi pensieri. Quel viso diretto verso il cielo e perso nei suoi pensieri la faceva impazzire. In quel momento stava percependo qualcosa di strano. Si era persa a pensare a di tutto e di più, anche lei non riusciva a trovare un’ appiglio nella corrente di pensieri e sensazioni che la stavano attraversando. Quel mix la stava facendo implodere.

Il colibrì iniziò a sbattere le ali, a una velocità che l’occhio umano non sarebbe riuscito a percepire e dalle mani si alzò in volo. Giusto per lanciare un ultimo sguardo a colui che lo teneva in mano. Pronto a volare via. L’uomo pensava che gli sarebbe mancato. Sorrise ancora.

Lo vide osservare il telefono. Lo osservò sorridere. E sempre mentre sorrideva lo vide levarsi le cuffiette e guardarsi intorno. Iniziò a sorridere anche lei, pronta ad essere notata. Ma di punto in bianco il sorriso si trasformò in una linea diritta. Inespressiva.

Alzò lo sguardo dal telefono sorridendo, si levò le cuffiette e iniziò a guardarsi intorno. E fu quando la vide che il sorriso divenne ancora più forte. Le si avvicinò anche lei con un sorriso smagliante e non poté non notare ancora una volta il tatuaggio del colibrì sul suo incavo della spalla. Le mise un braccio intorno al collo e le domandò come fosse andata la giornata. Lei gli sorrise e si allontanarono passeggiando leggeri.


Lei era lì, seduta sulla panchina ad osservarli mentre se ne andavano camminando, pensava a quanto fosse fragile in quel momento. La sua vita. A quanto assomigliasse a un piccolo pezzo di cristallo. A quanto assomigliasse a un piccolo colibrì.

mercoledì 9 marzo 2016

Twist

Le mura in marzapane, il tetto creato con lastre di cioccolato, caramelle a scopo decorativo incastonate come pietre a vista, finestre di zucchero trasparente, pavimenti di focaccia. La strega era contenta della sua bella casa, ci aveva messo molto tempo della sua vita per ottenere la casa dei suoi sogni, molto lavoro, ma d’altronde una strega non aveva molto da fare.
Era la classica strega dei libri di fiabe: vecchia decrepita con un naso acuminato, piena di brufoli, con lo sguardo arcigno e con poca cura per l’igiene personale, una di quelle persone che preferiresti non vedere, forse per quello aveva deciso di abitare lontano da tutti, in mezzo a un bosco, di quelli fitti, pieno di pini. Era riluttante al contatto umano, dato il suo aspetto rivoltante, ma tutto sommato era una vecchina adorabile che tendeva ai suoi affari.
In quella piccola radura c’era tutta la vita di quella vecchina, la sua casetta, il suo orto, la sua pace e nessuno capitava per sbaglio da quelle parti a importunarla.

Quella mattina la strega era uscita per andare a raccogliere dei funghi per farsi una bella zuppa, ne aveva proprio voglia, anche perché vedendo quella casa ogni volta le saliva il diabete, quindi di buon mattino prese e partì alla ricerca nel bosco, ricordandosi di chiudere bene a chiave la casa, perché anche se era in mezzo a un bosco, preferiva sentirsi sicura, non si poteva mai sapere chi poteva capitare da quelle parti. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, questo le diceva sempre la sua mammina.

Quella mattina destino volle che quella radura avesse due nuovi ospiti, due bambini che si aggiravano sperduti alla ricerca di qualcosa da mangiare probabilmente e quando per pura fortuna capitarono in quella zona aperta del bosco e videro quella casa, il loro cuore saltò un battito, si gettarono senza tante cerimonie su quella casetta e iniziarono a demolirla pian pianino, partendo dal garage. Non si capiva perché la strega avesse voluto costruire anche un garage, visto che macchine non ne aveva, ma probabilmente era solo per spirito di completezza, o così le andava. Coperti di zucchero caramellato dalla testa ai piedi e con tutta quell’energia nel sangue i due bambini sembravano due pazzi scatenati.

La vecchina già assaporava la sua zuppetta di funghi, mentre si dirigeva verso casa con il suo cestino pieno, stava pensando che cosa abbinare a quella minestrina calda, ed era indecisa tra le castagne e la zucca. Anche se le zucche crescevano a rilento e piccoline in quell’orto, purtroppo non era ben concimato. Presa totalmente dai suoi pensieri che quasi non si accorse dei due bambini che le stavano demolendo il garage.
Quando li vide però quasi ci rimase secca, osservare la sua creatura demolita da quei dentini bianchi e da quella fame insaziabile le fece perdere la testa.
Percorse gli ultimi metri che la separavano dalla casa a una velocità innaturale per una vecchina della sua età. Prese per la collottola i 2 bambini e gli domandò molto seccata il perché di quell’azione barbara.
I 2 bambini sporchi di zucchero dalla testa ai piedi risposero che era per semplice fame, e la strega si intenerì. Non riusciva a guardare il suo povero garage, ma non sarebbe riuscita neanche a guardare male i due ragazzi. Povere creature, probabilmente abbandonate a loro stesse, sperdute e affamate.
Decise di ospitarli, almeno finché non le fosse venuto in mente che farne o come aiutarli a ritornare dalla loro famiglia.
Preparò dunque la minestra con i funghi e la zucca, ma quando la diede ai ragazzini, i 2 bambini la gettarono per terra dicendo che preferivano la casa. La vecchina fece appello a ogni oncia di pazienza esistente nella sua persona per evitare di prenderli a sculacciate, meritate, per quell’ingratitudine, ma un sorriso del maschietto mise a tacere quel pensiero.
Una settimana dopo i 2 bambini erano ancora lì, la casa quasi non più,  con grande disappunto per la povera strega. Data la sua preoccupazione per la dieta che stavano seguendo i due ragazzini si avvicinò al più grande, gli prese il dito e disse:
“Scricciolino, devi regolarti, anche il dito è ingrassato, smettila di mangiarmi la casa, non è una dieta salutare, stasera promettimi che mangi il pane”.
Il bambino alzò i due occhi al cielo, non poteva tollerare quella vecchina rompiscatole, non ne poteva più.
“Mi darete una mano a fare il pane, che ne dite?”
Il viso dei due ragazzini si illuminò, e quasi all’unisono risposero “Sì”. Era l’occasione che attendevano da una settimana.
Si misero quindi a impastare, coperti di farina dalla punta delle orecchie ai piedi sembravano così carini, che la strega quasi si dimenticò di quanti disastri avessero causato. Gettò un paio di pezzi di legno nel forno, quel tanto che bastava per farlo salire a temperatura, quando il più piccolino gettò dentro al forno un pezzo di pasta.
La vecchina svalvolò: “Non ora! Il forno è ancora freddo!” e quasi si gettò nel forno per raccogliere quella piccola forma di pane.
I bambini entrarono in azione in contemporanea, il più vecchio assestò una bella pedata al sedere della vecchina e la spedirono dentro il forno, Il più giovane chiuse lo sportello con un movimento fluido, fissando il gancio. Si diedero il cinque.

La vecchina non poteva crederci, urlava, pregava, mentre la temperatura si alzava e iniziava a sudare, fino a quando la temperatura iniziò a diventare insostenibile, batté con forza i pugni sullo sportello, finché non iniziarono a comparire delle piccole bolle sulla sua pelle, l’acqua nel suo corpo raggiunse l’ebollizione, i capelli argentei presero fuoco e in mezzo alle sue urla disumane la strega bruciò come un ciocco di acero. Spargendo un profumo dolciastro per l’intera casa.
I 2 bambini aspettarono un’oretta prima di levarla dal forno per gettarla in giardino. Da lì poi finirono di demolire la casetta, quando anche l’ultimo pezzo di torroncino venne mangiato se ne andarono verso il bosco, lasciando quella radura, sperando magari di incontrare qualche lupo, il profumo che avevano sentito un paio di ore prima gli aveva messo voglia di carne.



Un po’ di mesi dopo un cacciatore passò per la radura, intravide le macerie di una casa, pezzi di dolce ammuffito dovunque, ma c’erano delle zucche enormi, di certo il terreno sarebbe stato molto buono da coltivare, decise di proseguire la caccia, ma stando molto più attento.
Incrociò quasi subito 2 poveri bambini, sporchi e affamati, sperduti nel bosco. Gli raccontarono subito una storia a riguardo di una vecchia strega cannibale con una casa di zucchero, alla loro prontezza di riflessi nel salvarsi da una fine orribile.
Al cacciatore si strinse il cuore, doveva aiutarli, povere creature. Il bosco poteva essere un posto veramente pericoloso, a conferma di quello che stava pensando intravide la carcassa di un lupo lì vicino, chissà che razza di animale poteva avere fatto una cosa del genere.
“Seguitemi” disse.
“Oh certo!” dissero quasi all’unisono i due bambini.

“Abbiamo fame”.

giovedì 4 febbraio 2016

Bugie di Pietra

Ormai erano 2 anni che il mondo conviveva con il morbo, fior fiore di ricercatori e scienziati avevano lavorato giorno e notte per ricercare una eventuale cura, ma non sembrava esserci soluzione a questa malattia.
Volgarmente la chiamavano il Silenzio, ti costringeva a stare zitto, Marco ricordava ancora il giorno zero, non c’era stato nessun preavviso, nessuna possibilità di fermare il contagio, ce l’avevano tutti, incubata da chissà che parte del proprio DNA, dormiente, pronta a presentarsi. Tutte le persone che erano sul pianeta in quel momento portavano i segni di quel giorno, non c’era stato modo di accorgersene, nessuna maniera di salvarsi, nessuna cura palliativa. Marco faceva parte dei fortunati che quel giorno avevano subito gli effetti minori. Medici e ricercatori erano riusciti a capire che in qualche maniera la malattia agiva sull’ipofisi e sul meccanismo di rilascio di ormoni che regolava le emozioni mentre la persona raccontava una bugia, la punizione era severa, il corpo si trasformava in pietra, estendendosi a seconda della pesantezza della bugia, dunque una bugia leggera al massimo ti lasciava un segno leggero sulla pelle, ma una importante, una imperdonabile, poteva costarti la vita, ognuno sul pianeta portava almeno un segno di quel giorno, i più fortunati almeno.
Quel giorno bugiardi seriali vennero condannati a una fine orribile, politici dopo conferenze e comizi, mariti con mogli, mogli con mariti, fidanzati, amanti, amici, vennero puniti, nel giro di un paio d’ore trasformati in statue di pietra, da quante ne avevano raccontate. Poteva sembrare una benedizione per la società umana, l’onestà obbligata, ma invece di portare progresso aveva fatto regredire l’umanità a un medioevo, non c’era possibilità di indorare la pillola, nessuna possibilità di perdono, se sbagliavi ne pagavi il prezzo. La punizione era certa. Le varie religioni erano tornate alla ribalta con la scusa della punizione divina e del pentimento che avrebbe curato la malattia, i rapporti interpersonali erano completamente rovinati, non c’era modo di poter mantenere una conversazione o un rapporto, dunque gran parte delle persone sceglieva il silenzio a tutto il resto. Quelli che avevano pagato di più questa situazione erano purtroppo i bambini, se gli adulti potevano scegliere il silenzio, i bambini ancora non capivano il significato di bugia e lo imparavano sulla propria pelle. Innocenti bugie bianche su chi avesse mangiato la marmellata o su chi avesse colorato i muri di casa adesso costavano centimetri di pelle, che inevitabilmente si trasformava in roccia.
Marco in tutto questo cercava di sopravvivere, ormai vivere era un lusso, il morbo aveva mandato in crisi l’economia mondiale, il commercio, anche le banche erano fallite, d’altronde come poteva un commerciante venderti qualcosa a un prezzo superiore o fare un affare, costretto a non poter raccontare bugie. Forse per qualcuno era il mondo perfetto, completamente onesto, ma talvolta forse tra persone necessitiamo di bugie stupide, del contentino per salvarci dalla cruda verità. La fortuna di Marco era quella di essere stato sempre considerato uno stronzo, che non aveva filtri, diceva subito quello che pensava, anche a costo di ferire la persona che aveva di fronte, ma anche lui portava qualche cicatrice, una parte dell’arcata sopraccigliare sinistra, l’avambraccio destro e la scapola sinistra erano di pietra ormai. Credeva che ne fosse valsa la pena, ricordava ognuna di quelle bugie, non le avrebbe mai dimenticate. L’avambraccio destro con suo nonno che gli aveva chiesto una mano a riordinare il giardino un pomeriggio, non gli andava proprio di aiutarlo, ma dato che gli voleva bene si era reso disponibile, e alla domanda del nonno “Hai voglia o hai di meglio da fare? Vedi che non ti trattengo se hai qualche impegno” rispose “ Nessun problema nonno! Sai che mi fa piacere aiutarti”. E alla sera quando l’avambraccio aveva iniziato a prudergli, era contento, ne era valsa la pena. L’arcata sopraccigliare sinistra gli era costata con un’amica che aveva bisogno di tempo per raccontargli dei suoi problemi e lui, pazientemente, rimase ad ascoltare anche se non poteva fregargliene di meno, ma doveva farlo per amicizia. La scapola sinistra invece era una bugia egoista che aveva raccontato a sua madre e quasi gli era costata la vita, uno dei primi giorni in cui il morbo aveva iniziato a presentarsi e ancora non si era capita la causa, sua madre gli aveva chiesto se fosse felice e lui le aveva mentito spudoratamente. Ma tutto sommato ne era contento, quel sorriso ne valeva tutta la pena.
Marco ora si frequentava con una ragazza di nome Anna, anche se il rapporto era molto strano, non si parlavano, per paura delle conseguenze, semplicemente trascorrevano tempo insieme, tempo di qualità, ma nessuna domanda personale o domande generiche, si conoscevano poco, ma stavano bene insieme. Forse anche troppo. Stava andando da lei in quel momento.
Viveva o meglio sopravviveva in un appartamento al terzo piano di un vecchio palazzo, ormai vuoto, gli altri inquilini erano scomparsi tutti, probabilmente trasformati in statue.
Entrando nell’appartamento lei lo accolse con un lungo abbraccio, fece partire un po’ di musica e mise la caffettiera sul fuoco. Oh se la amava, amava quei fianchi che andavano a tempo, amava anche il caffè, era in pace con se stesso, avevano un tipo di complicità molto particolare, fatta più di silenzi che di parole, fatta di sguardi più che di contatti, e lui ne impazziva. Come un assetato in un deserto guardava l’oasi, lui pendeva dalle sue labbra. E la complicità si sentiva in ogni cosa, fossero seduti in silenzio ad ascoltare buona musica, stessero camminando, facendo l’amore o qualsiasi altra cosa si creava un campo di energia elettrostatica intorno a loro, era evidente, sembravano essere arrivati ad un altro livello di coscienza, dove nessuno poteva toccarli, con uno sguardo si raccontavano giornate, sfiorandosi si passavano emozioni, scegliendo musica si raccontavano.
Tra tazzine di caffè, musica e occhiate passarono l’intero pomeriggio, sfiorandosi un paio di volte, non aprendo bocca. Concedendo al silenzio il rispetto che meritava, troppo terrorizzati per rompere l’equilibrio.

Ormai si era fatta sera e Marco aveva notato una certa pesantezza negli occhi di Anna, per cui decise che era ora di andare, fece per alzarsi, ma lei lo bloccò con il braccio, lo prese per mano e lo portò in camera da letto. Lo spinse con foga sul letto e quasi gli strappò i pantaloni di dosso, gli montò sui fianchi e si levò la camicetta, Marco non poté fare a meno di non notare per l’ennesima volta le macchie di pietra frutto di vecchie bugie sul suo corpo, un lato della clavicola sinistra, il gluteo sinistro e un lato della coscia destra, si domandava sempre quali potessero essere state le bugie che le erano costate quelle cicatrici, lei iniziò a esplorare il suo collo con la bocca, mentre con le mani gli teneva il volto stretto in una morsa, come a evitare che scappasse, le mani da lì si spostarono ai suoi capelli, aggrovigliandosi e sciogliendosi, senza proferire parola, lui intanto la osservava, trascinato da quella corrente di emozioni, voleva stringerla, farla sua in quel momento, ma lasciò che lei si prendesse il suo tempo. Le loro mani esploravano ogni curva, ogni insenatura e le sue mani facevano porto in quelle baie senza volersene più andare.

Stavano per addormentarsi.
Marco si assunse un grandissimo rischio: “Ti Amo”.
Anna rispose: “Ti Amo”.
E sprofondarono nel deliquio.




Nota dell’Autore(pffffff. Ahahah): visto che traumatizzo gran parte delle persone con i finali tristi, ne ho scritti due, anche perché più di qualcuno lo vuole. E qualcuno mi ha obbligato a scriverne uno di buono. Restando nel tema del racconto, spesso è meglio una piccola bugia che una verità pesante come una roccia, a voi la scelta su quale finale vi piaccia di più, vi rappresenta di più, vorreste che ci fosse. Il primo sarà quello triste, il secondo quello buono. Buona lettura.




Il mattino dopo era nuvoloso, la casa era vuota. Niente musica, nessuna caffettiera sui fornelli, erano ancora a letto, nella stessa posizione in cui si erano addormentati, c’era un silenzio nella camera, quasi come si fosse fermato il tempo nell’intera stanza. C’era pace, calma, tranquillità.
A mezzogiorno erano ancora lì, nessuna voglia di muoversi, anche durante tutto il pomeriggio, fino alla sera, fino al mattino seguente. Stavolta il sole fece capolino tra i balconi e una lama di luce tagliò a metà la stanza, andando a tagliare i due corpi immobili, grigi, abbracciati l’uno all’altro, come un’opera di qualche scultore neoclassico. In equilibrio. Da fotografia in un libro d’arte, con tanto di descrizione. Fuori dal palazzo la gente continuava a sopravvivere, noncurante, silenziosa.

“Che giornata di merda!” esordì un passante, che passava camminando lì sotto. Non aveva paura che il morbo lo punisse, era la sacrosanta verità.





Il mattino dopo era nuvoloso, una di quelle giornate da chiudersi in casa e vivere d’amore e chiacchiere, Anna si era svegliata ed era andata a metter sul fuoco la caffettiera, non prima però di avergli dato un pudico bacio alla base della clavicola, mentre lui ancora mugugnava mentre annaspava per uscire dalla fase del sonno profondo. Mise un paio di canzoni per svegliarsi, di quelle calme, rilassanti, poco ritmo, che ti accompagnano il risveglio, mentre Marco avrebbe preferito qualche canzone bella carica per svegliarsi.
Incespicò fino alla cucina dove c’era lei, radiosa, in un pigiama che era tutt’altro che sexy, ma a lui non importava nulla.

“Ho fatto il caffelatte, ti piace vero?”.
“Molto”.

Iniziò a sentire un prurito familiare sul polpaccio destro dove il morbo lo stava punendo per la bugia e iniziò a sorridere. Ne valeva la pena.

“Che giornata stupenda!” disse. Non aveva paura che il morbo lo punisse, era la sacrosanta verità.